Pier Carlo Padoan, Paolo Gentiloni e Carlo Calenda durante la conferenza stampa di presentazione del Def. Foto LaPresse

L'agenda economica del nuovo governo è scritta nel Def

Veronica De Romanis

Perché il prossimo premier dovrà tenere il Documento di economia e finanza sul comodino. Il tempo di spesa in deficit è finito

Il 26 aprile scorso è stato approvato il Documento di economia e finanza 2018. Il governo, nei limiti dei suoi poteri, ha potuto delineare unicamente le tendenze dell’economia italiana per i prossimi anni. La costruzione del quadro programmatico spetta, infatti, al prossimo esecutivo. E, così, privo delle misure di politica economica, il documento ha suscitato poco interesse nel dibattito pubblico. Eppure, le oltre 130 pagine predisposte dai funzionari del Tesoro contengono diverse indicazioni utili per il futuro premier. In primis, la crescita.

  

Nel prossimo biennio il tasso medio di sviluppo dell’economia è atteso subire un rallentamento a causa dell’incremento dell’Iva derivante dalle clausole di salvaguardia (pari a circa 30 miliardi): la crescita del pil dovrebbe, infatti, scendere dall’1,5 per cento previsto per l’anno in corso – stima che, peraltro, rischia di rivelarsi ottimistica alla luce dei recenti dati congiunturali e dell’acuirsi delle tensioni geopolitiche e commerciali in atto – all’1,3 per cento. Le suddette clausole servono a finanziare spese passate a cui il governo non ha voluto trovare una copertura a suo tempo. Non sono, quindi, "obbligatorie", tutt’altro. Si tratta di una scelta di politica economica che ha un costo, sia in termini di minor trasparenza del bilancio pubblico, sia in termini di maggiore debito se – come fatto finora –, il disinnesco delle clausole avviene, invece che attraverso la riduzione della spesa oppure l’aumento di altre tasse, con il disavanzo. A tal scopo, i governi Renzi-Gentiloni hanno beneficiato di oltre 40 miliardi di flessibilità di bilancio, ossia maggiore tempo per rispettare gli obiettivi concordati con Bruxelles. L’èra degli sconti fiscali, tuttavia, sembra essere terminata. La Commissione Ue, con un approccio molto politico, ha concesso “tutta la flessibilità possibile” – per usare le parole del Commissario Moscovici – e questa volta deve fare i conti non tanto con la Germania, bensì con otto paesi del nord (Irlanda, Lettonia, Finlandia, Danimarca, Estonia, Lituania e Svezia) capitanati dall’Olanda non più disposti a far parte di un’Ue debole che al rispetto delle regole e al rigore preferisce accordare margini fiscali aggiuntivi a economie che non mostrano di voler correggere le proprie finanze pubbliche. Uno Stato con finanze pubbliche non in ordine può minare la stabilità dell’intera area, obbligando gli altri partner a venirgli in soccorso. In un simile contesto, il prossimo ministro dell’Economia dovrà trovare un “metodo” diverso per scongiurare l’aumento dell’Iva, possibilmente attraverso un taglio della spesa corrente. Dovrà fare l’opposto di ciò che è stato fatto nel periodo 2013-2017 dove la spesa corrente primaria (al netto degli interessi) è aumentata di circa 24 miliardi mentre il comparto più produttivo, quello degli investimenti, è stato tagliato di quasi 5 miliardi.

  

Per quanto riguarda la spesa, il Def evidenzia un secondo punto chiave: la sostenibilità delle finanze pubbliche. In particolare, dalla tabella a pagina 86 si evince che nel 2050 la spesa pensionistica dovrebbe superare il 17 per cento del pil. Si tratta di circa due punti percentuali in più rispetto al 2015 e ciò nonostante le suddette stime incorporino ipotesi piuttosto ottimistiche, come una tasso di crescita tendenziale dell’1,3 per cento e un tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro aumentato di quasi 10 punti (dal 57,8 del 2015 al 64.7 per cento). Pertanto, alla luce di queste dinamiche, le recenti riforme delle pensioni, a cominciare dalla Fornero, non andrebbero cambiate, semmai rafforzate. Il dibattito politico, invece, va in direzione opposta. Il terzo elemento rilevante del Def riguarda l’allegato relativo agli indicatori di Benessere equo sostenibile (Bes). Gli indicatori presi in esame sono otto e comprendono il reddito disponibile, la povertà assoluta, lo stato di salute, l’occupazione femminile, la criminalità, l’efficienza della giustizia, l’emissione di CO2 e l’abusivismo edilizio. Una novità importante – l’Italia è tra i primi a inserire i Bes nel Documento da mandare a Bruxelles – che dovrebbe consentire una miglior misurazione del benessere sociale e ambientale. L’allegato è ricco di informazioni di cui il prossimo governo dovrebbe tener conto. Il grafico a pagina 18 mostra la percentuale di persone in povertà assoluta. Nel 2005 questa percentuale era simile tra gli over 65 e gli under 17. Nell’arco di dieci anni, però, per gli anziani si è dimezzata mentre per giovani si è quasi triplicata (rispettivamente al 14 per cento e al 2,3). Dall’analisi di questi dati, e quella sulla sostenibilità delle pensioni, si evince che l’agenda del futuro governo dovrebbe prioritariamente guardare ai giovani e al loro futuro e non agli anziani e alla loro pensione, come si è fatto in questi ultimi anni. Non solo. Dovrebbe occuparsi con molta più forza della situazione occupazionale femminile.

  

Più attenzione alle “carriere rosa”

L’indicatore sulla mancata partecipazione delle donne al mercato del lavoro evidenzia, a pagina 28, il persistere di un gap significativo tra donne e uomini, seppur in lieve diminuzione. Inoltre, l’indicatore relativo al rapporto tra il tasso di occupazione delle donne di 25-49 con figli da 0 a 5 anni rispetto alle donne della stessa fascia di età senza figli rileva l’enorme divario tra le donne sotto i 35 anni e quelli tra i 45 e 49 anni, a riprova del fatto che le giovani donne con figli lavorano meno. Entrambi gli indicatori mostrano, peraltro, un andamento decrescente nell’ultimo triennio. Aumentare il tasso di occupazione femminile – che in Italia è 14 punti sotto la media europea –, è fondamentale. Non ci sono ricette miracolose, serve volontà politica, tempo e risorse finanziarie adeguate. Soprattutto un cambiamento culturale. Qualcosa si potrebbe fare subito a costo zero. Ad esempio nominare delle donne nel Comitato Bes – il comitato che seleziona gli indicatori –, attualmente composto da cinque uomini. Avere delle donne competenti in materia in un Comitato che monitora anche l’occupazione femminile darebbe un contributo significativo al gruppo. Un secondo intervento, a costo zero, sarebbe formulare una legge elettorale idonea a garantire la parità di genere non solo in termini di candidature, ma di presenza in Parlamento. Almeno su questo punto. trovare un accordo non dovrebbe essere difficile.