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Perché Trump fa salire il prezzo del petrolio

Gabriele Moccia

Non solo revisione del deal nucleare iraniano. Gli Stati Uniti cercano di penetrare l’Europa che ha imparato a raffinare il greggio made in Usa 

 

Roma. Di rado la geopolitica ha serio impatto sui mercati finanziari. Stavolta il problema non è la Nord Corea. Ma l’accordo in disaccordo tra il presidente americano Donald Trump e quello francese Emmanuel Macron sulla revisione deal nucleare iraniano. In risposta il prezzo del petrolio è salito a 75 dollari creando aspettative per un ulteriore rialzo dell’inflazione. Più di tutto a influenzare il greggio è la strategia americana. 

   

Il blitz trumpista di qualche giorno va contro il tentativo del cartello dell’Opec – riunitosi a Gedda, in Arabia Saudita – di rialzare i prezzi del petrolio si è rivelata una mossa particolarmente inusuale quanto efficace. Negli ultimi mesi infatti stiamo assistendo a una “vendetta" del presidente americano nei confronti dei produttori Opec e della Russia. Non è un caso che nel suo attacco al cartello il presidente Trump abbia fatto riferimento a “navi completamente cariche in mare”. Cifre alla mano, ad aprile le forniture di petrolio americano all’Europa hanno raggiunto un picco senza precedenti – quasi 2,2 milioni di tonnellate, l’equivalente di 550 mila barili al giorno secondo le stime di Thomson Reuters Eikon – che fa dire ai trader petroliferi del Mediterraneo (e che solitamente trattano il greggio russo o del Caspio) che il petrolio americano è in offerta ormai ovunque. Negli ultimi due mesi ben 78 mega petroliere – le Aframax – hanno attraccato nei porti e nelle raffinerie europee, prevalentemente inglesi, olandesi ed italiane. Ma negli ultimi tempi i flussi di greggio americano hanno raggiunto anche raffinerie in Polonia e in Norvegia, quasi uno smacco alla sfera d’influenza dell’oro nero russo. Un boom che si giustifica anche dal fatto che solo di recente le raffinerie del vecchio continente hanno migliorato le proprie capacità di trasformazione del greggio americano. 

   

Come sostiene Ehsan Ul-Haq, direttore della società di consulenza di base a Londra Resource Economics, “i raffinatori europei hanno cominciato a sperimentare il greggio americano solo l’anno scorso. Ora ne sanno molto di più su come trattarlo”. Ecco che Wti, Light Louisiana Sweet, Eagle Ford, sono diventati prodotti ormai familiari all’industria petrolchimica europea. Un altro fattore di attrattività è poi legato allo spread di prezzo tra il Brent e il Wti, dove il primo resta sulla forchetta alta del prezzo, restando meno competitivo del Wti americano, segnando una differenza di quasi 5 dollari al barile. La Casa Bianca, come parte della sua strategia della dominanza energetica, è intenzionata a difendere con le unghie queste prerogative. Ecco perché Trump si è mosso contro le scelte prese a Gedda dall’Opec. Il prosieguo del taglio all’output petrolifero di Opec e Russia sta lentamente riportando i prezzi sopra ai 70-75 dollari al barile, un macigno che potrebbe rimettere a rischio l’economia statunitense, l’industria delle trivelle in primis. I prezzi del greggio sono saliti di oltre il 60 per cento dall'estate del 2017 e i produttori statunitensi esportano più che mai. 

    

Allo stato attuale l'economia americana continua a beneficiare dei prezzi del greggio che danno impulso all'industria energetica senza ridimensionare la domanda. Tuttavia ulteriori rialzi potrebbero soffocare la ripresa economica, causando l'aumento dell'inflazione e più decisi interventi della Federal Reserve in termini di rialzo dei tassi di interesse. Uno scenario che Trump è intenzionato a evitare a tutti i costi, anche perché qualche segnale negativo è già arrivato. Venerdì scorso la società di servizi petroliferi Baker Hughes ha pubblicato l’aggiornamento sul numero degli impianti di trivellazione in funzione nel paese, evidenziando un leggero calo delle trivelle di circa quindici unità. Per essere ancora più aggressiva sui mercati, l’industria petrolifera ha chiesto a Washington un netto abbassamento delle royalties sulle attività d’estrazione in territorio nazionale, richiesta che era arrivata poco prima dell’asta governativa per la messa in vendita di oltre 77 milioni di acri di acque federali per trivellazioni offshore in Alabama, Florida, Lousiana, Missisipi e Texas. Al momento però, il potente Segretario agli interni, Ryan Xinke (cui Trump ha affidato il rilancio del braccio armato energetico) ha fatto presente che la Casa Bianca non intende accogliere la richiesta. Sta di fatto che Trump avrà un bel da fare nei prossimi mesi per far mantenere i piedi sull’acceleratore all’economia energetica del paese, cercando di raggiungere entro l’anno il primo obiettivo prefissato della energy dominance: 10 milioni di barili al giorno. Sarebbe un altro schiaffo al conclave di Vienna e a Mosca.

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