Perché è corretto parlare di "interdipendenza" energetica americana

Massimo Nicolazzi*

Tutti parlano di “indipendenza” ma gli Stati Uniti allontanano sempre quel traguardo. C’entrano lo “shale” e le raffinerie

Meglio cominciare con una premessa. Noi non consumiamo “petrolio”. Consumiamo i suoi prodotti (benzina, diesel, ecc.). I greggi sono tanti e diversi, più o meno leggeri (secondo i gradi API) e più o meno acidi (ricchi di zolfo). Più sono leggeri e dolci, e più prodotti se ne possono trarre con processi “semplici” di raffinazione. Più sono acidi e pesanti e meno valgono; ed esigono per trarne benzina anziché catrame di essere trattati con processi “complessi”. La raffineria “semplice” non è tecnicamente in grado di trattare i greggi peggiori; e per quella complessa non è economico (e a volte neanche tecnicamente fattibile) trattare quelli migliori. Ogni petrolio è bello a raffineria sua.

  

La semplificazione è estrema. Però un esempio può renderla pratica: la crisi libica. I media che annunciano il rischio di chiusura di nostre raffinerie per il venire meno dell’approvvigionamento. Non succede niente. Mesi dopo scopriamo che, venuto dal nulla, il greggio dell’Azerbaijan è quello maggiormente importato in Italia. La nuova provenienza non l’ha decisa la Farnesina. Semplicemente il greggio azero era quello più simile a quello libico, e dunque il più adatto a sostituirlo nel nostro sistema di raffinazione.

  

Applicazione: gli Stati Uniti. Uno sviluppo nell’altro secolo tributario del petrolio. Una produzione nazionale che tra le due guerre era superiore al 70 per cento della produzione mondiale. Un’industria nazionale che al netto dell’indotto occupa quasi 200.000 lavoratori. Metti questo, e altro, assieme, e ricostruisci le fondamenta del mantra della sicurezza energetica. Che a volte tracima in ossessione; e altre si presta a giustificare qualunque politica. Anche un divieto all’esportazione del greggio durato per quarant’anni (fino al 2015) che in realtà poco c’entrava, visto che i i prodotti rimanevano invece liberamente esportabili, ed esportati. La benzina poteva migrare; il greggio no. La chiamavano sicurezza; ed era la lobby dei raffinatori che era prevalsa su quella dei produttori.

   

Poi fu – ed è – “shale revolution”. La produzione che in dieci anni raddoppia e supera i 10 milioni di barili al giorno (barili/giorno). Una produzione che si è mostrata resiliente oltre le attese al crollo dei prezzi degli anni scorsi; e che parrebbe destinata, secondo le previsioni, a ulteriore crescita nel prossimo futuro.

  

Si proclama infine la dichiarazione di indipendenza energetica degli Stati Uniti. In realtà è una dichiarazione prematura, se a gennaio 2018 gli Stati Uniti importano ancora quasi 8 milioni di b/g. Però si sta molto meglio di quando se ne importavano quasi 12 milioni, e adesso più di 3 vengono dal Canada. Il sistema nord americano, in definitiva, all’“indipendenza” ci sta tornando vicino (per il gas ci è già arrivato; ma quella è un’altra storia).

  

Più si avvicinano all’indipendenza, però, più sembrano volere rallentare il raggiungimento della meta. Nel 2014 un’autorità amministrativa decide che i condensati (idrocarburi leggeri da gas che condensa allo stato liquido) non sono “greggio” ma “prodotti” (come dire che il succo d’uva “è” vino) in quanto tali liberamente esportabili. Nel 2015 lo choc, o quasi. Il Congresso americano liberalizza di fatto l’esportazione dei greggi. L’industry ci mette un poco ad adeguarsi; ma nel secondo semestre del 2017 l’export decolla e a ottobre si avvicina a 1,8 milioni di b/g. Le previsioni correnti per 2018 danno poi l’export a 1,5 milioni di b/g come media annua. Se si tenessero in casa quello che esportano la “dipendenza” del sistema nordamericano dalle importazioni di greggio sarebbe nell’ordine dei 2,5/3 milioni di barili. Loro invece esportano, e continuano a importare volumi equivalenti. In contraddizione, a prima vista, con mantra e dichiarazione di indipendenza.

   

Torniamo alla premessa. La shale oil è un greggio dolce e leggero (Lto, Light tight oil). Il sistema di raffinazione americano è invece sbilanciato sul mediamente complesso. All’inizio è bastato chiudere le importazioni dei greggi più leggeri (è così che Algeria e Nigeria sono presto sparite dal radar). Poi però la capacità di assorbimento efficiente di Lto da parte del sistema ha cominciato a farsi critica. Alla fine l’ha vinta il liberi tutti. Di continuare a importare saudita (o equivalente) e di esportare un po’ del proprio a chi ha spazio in sistemi “semplici”. Sud America, Europa, ma sin qui soprattutto (200.000 b/g) Cina che dopo il Canada è oggi il secondo importatore in assoluto di greggio degli Stati Uniti (ma astenersi please dal brivido geopolitico, che non c’entra…).

  

Troppo presto per dirlo, ma visto che negli Stati Uniti è prevista per quest’anno una crescita dei consumi nel 2018 potremmo assistere al paradosso (apparente) che gli riesce di aumentare insieme sia i volumi importati sia quelli esportati.

  

Infine qualche notazione circa l’enfasi su indipendenza e sicurezza. O si traducono in pratiche autarchiche – e come sappiamo finisce che ci si fa molto male – o sono giusto enfasi. La “shale revolution” vuole e ha voluto dire anzitutto più occupazione – con l’esplosione, tra l’altro, dell’industria petrolchimica – e forte miglioramento della bilancia dei pagamenti. Ma non ha aumentato l’“indipendenza”. Ha aumentato l’interdipendenza. Per dirla con Morris Adelman, il più grande economista del petrolio del XX Secolo, “the oil market, like the Ocean, is a great pool” (il mercato petrolifero, come l’oceano, è una grande vasca). Un mercato liquido, con una componente di costo di trasporto quasi irrisoria, e perciò un mercato globale. Le direzioni dei prodotti le decidono i consumi; ma le destinazioni dei greggi le decidono le raffinerie. Ed è così che l’aumento della produzione anziché risolversi in aumento dell’auto-produzione genera aumento dell’interscambio commerciale. Si fa (in)dipendenza che genera, appunto, interdipendenza.

   

*Docente di Economia delle risorse energetiche all’Università di Torino

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