Foto di Alessandro Scarcella via Flickr

Perché la bassa produttività italiana dipende anche dalle banche

Maurizio Sgroi

Prima il credit crunch ha limitato l’innovazione aziendale, poi il Quantitative easing ha puntellato imprese zombie

Roma. E’ sempre più evidente, al punto ormai da non potere più essere ignorato, il legame stretto fra le dinamiche finanziarie, in primis quelle creditizie, e il livello della produttività. Economisti e banchieri sono in qualche modo chiamati a fare conti con una realtà, che anni e anni di modellistica hanno ignorato, dove il ciclo finanziario, che semplificando potremmo definire come l’alternarsi di “boom” e “burst” creditizi, impatta sull’economia reale al punto da erodere la produttività. Detto più semplicemente: una gestione errata della politica monetaria e del credito bancario può creare problemi gravi e persistenti alla crescita economica.

 

Due paper di Banca dei regolamenti internazionali e di Banca d’Italia ammettono che le banche centrali, in primis, e commerciali, in via derivata, possono fare molti più danni con la moneta accomodante e il credito facile di quanti benefici riescano a procurare. Così si spiega (in parte) il calo della produttività

Questo pensiero è stato il sottotitolo insidioso di una conferenza organizzata da Bis, Ocse e Fmi “Weak productivity: the role of financial factors and policies” che ha impegnato parecchie intelligenze a Parigi nel gennaio scorso. L’insidia sta nel fatto che riconoscere un ruolo alla finanza nell’andamento della produttività implica innanzitutto questionare alcuni punti fermi dell’attuale paradigma economico, a cominciare da quello della neutralità della politica monetaria sui processi dell’economia reale. E poi vuol dire illuminare con una luce poco confortevole le banche centrali, che della politica monetaria sono le responsabili, nonché quelle commerciali, che in qualche modo sono una delle cinghie di trasmissione della politica monetaria.

 

Di questo tormento silenzioso si trova traccia nell’intervento parigino di Claudio Borio, capo del dipartimento economico e monetario della Banca dei Regolamenti internazionali di Basilea. “La grande crisi finanziaria ha fatto risuonare il messaggio che il ciclo finanziario può causare grandi danni economici”, specialmente quando “si verificano crisi bancarie”, dice Borio. Esaminando l’evoluzione della produttività del lavoro si nota come tale componente sia notevolmente influenzata dai boom creditizi assai più che da altri fattori, specie in corrispondenza di eventuali crisi bancarie. L’osservazione, condotta su un campione di 21 economie avanzate nel periodo 1969-2013, mostra che la produttività del lavoro viene indebolita da una cattiva allocazione delle risorse finanziarie durante il boom creditizio e ancor più quando il boom si esaurisce, per un tempo che può arrivare e superare i cinque anni. Le simulazioni calcolano che negli anni 2008-13 la produttività del lavoro nelle economie avanzate ha perduto circa lo 0,6 per cento l’anno, ossia più o meno quanto sono cresciute. Emerge inoltre il link fra la produttività e i tassi di interesse, e in particolare con un “persistente livello basso di tassi di interesse”, come sottolinea Borio. Per averne contezza si può osservare il fenomeno delle imprese zombie, quelle che con i profitti non riescono a pagare gli interessi sui debiti. “Tassi persistentemente bassi – spiega Borio – possono interagire con la debolezza di una banca e ritardare la risoluzione dei problemi. E’ più facile portare avanti cattivi prestiti quando il loro costo opportunità si abbassa. Ed è più difficile discriminare tra i mutuatari quando i tassi di interesse sono molto bassi. In definitiva, le imprese non redditizie potrebbero sopravvivere più a lungo, sottraendo le risorse alle altre”. Spiazzare le aziende più produttive non può far altro che diminuire la produttività globale. Si osserva che le imprese zombie sono notevolmente cresciute in numero negli ultimi trent’anni proprio col declinare del tasso di interesse nominale. Forse si tratta di una coincidenza, come ammette lo stesso Borio, ma certo “è intrigante e sorprendente”. Il punto di svolta avviene dopo il 2000. E proprio agli inizi del XXI Secolo il ciclo finanziario statunitense, in espansione dalla metà degli anni ’90, si impenna. A fronte di ciò si osserva un andamento della produttività pro capite declinante negli Stati Uniti.

 

A fronte di queste considerazione, che a molti sembrano squisitamente accademiche, esistono però circostante fattuali che rendono il tutto molto concreto. Una bella indagine pubblicata da Banca d’Italia a marzo scorso (“Credit supply and productivity growth”) si è occupata di osservare se e in che modo una riduzione dell’offerta di credito – quindi nella fase burst del ciclo finanziario – possa avere effetti sulla produttività delle imprese. In generale, spiegano gli autori, risorse limitate possono spingere le imprese a migliorare l’efficienza dei processi e nei prodotti. Ma al tempo stesso la carenza di credito potrebbe penalizzare le attività più produttive, che richiedono di solito maggiori spese iniziali.

 

L’analisi ha osservato un campione di circa 70.000 imprese italiane nel periodo 1997-2013, studiando i dati di bilancio e i comportanti delle aziende in relazione all’andamento dell’offerta di credito. “I risultati mostrano che l'effetto diretto della restrizione creditizia sperimentata durante la recente recessione potrebbe spiegare almeno un quarto della caduta della produttività osservata per le imprese italiane”. Al contrario, maggiore offerta di credito ha un impatto positivo indubitabile, ma molto più limitato. “Ciò implica che una elevata volatilità del credito bancario possa avere effetti netti negativi sulla crescita della produttività”. Detto in altre parole, “non è soltanto la quantità di credito a essere importante, ma anche la sua stabilità”. E questo ci riporta alla necessità di avere una gestione bancaria avveduta.

 

I canali attraverso i quali il ciclo finanziario si trasmette alle dinamiche produttive possono essere diversi, influenzando ad esempio gli investimenti in ricerca e sviluppo, la capacità di realizzare migliori pratiche manageriali e quella di competere sui mercati internazionali. Ma è il principio che conta. E anche la fine: “I risultati mostrano che le turbolenze finanziarie possono avere un effetto persistente sulla produzione aggregata perché deprimono i fattori totali della produzione delle imprese nel breve e nel lungo periodo”. Infine: “Le frizioni finanziare sono dannose ben oltre gli effetti negativi che provocano sull’efficienza allocativa”. Insomma le banche – centrali in primis e commerciali in via derivata – possono fare molti più danni con la moneta accomodante e il credito facile di quanti benefici riescono a procurare.

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