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Non solo Italo

Alberto Brambilla

Dai treni al debito passando per l’industria. Valide ragioni per non temere gli investimenti esteri

Roma. Segnala un cambiamento culturale nell’approccio dell’Italia agli investimenti esteri il comunicato congiunto del ministero dell’Economia e dello Sviluppo economico sull’offerta da parte del fondo americano Global Infrastructure Partners (Gip) per rilevare Ntv-Italo, l’unica compagnia privata in Europa dei treni ad alta velocità, almeno nella parte in cui si elogia l’interesse straniero per un asset italiano. “E’ molto positivo che vi sia un grande interesse da parte di potenziali investitori su Ntv”, scrivono i ministri Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda, pur senza che lo stato c’entri in questa trattativa e palesando, in modo ambiguo, una preferenza per l’alternativa della quotazione in Borsa “perfetto coronamento di una storia di successo”.

   

Mentre questo giornale andava in stampa, l’offerta da 1,9 miliardi di euro (più i 450 milioni di debiti) di Gpi era all’esame del cda di Ntv con i soci finanziari Intesa Sanpaolo e Assicurazioni Generali propensi a vendere, mentre il gruppo di imprenditori-azionisti, tra cui Luca di Montezemolo, Flavio Cattaneo e Diego della Valle, propensi invece a estrarre valore attraverso la quotazione a Piazza Affari programmata in questi giorni. Già in precedenza, per fermare speculazioni politico-mediatiche bolse sul solito gioiello italiano venduto agli stranieri, Padoan aveva detto “non è un pezzo d’Italia che se ne va ma un investimento estero che arriva in Italia”. Nel caso di Italo non si può usare l’argomento della strategicità, già consumato per l’infrastruttura telefonica nella polemica circa il controllo della francese Vivendi su Tim, che ora separerà la rete creando una società ad hoc con possibilità per lo stato di diventare azionista dell’asset perduto con la privatizzazione. Nel caso dei treni ad alta velocità l’asset resta in Italia, il management resterà italiano, e sarebbe interesse di un fondo specializzato infrastrutturale come Gpi quello di fare concorrenza alle Ferrovie dello Stato.

   

Spesso nel dibattito mediatico è gradito quando un’azienda italiana si espande all’estero, come Ferrero, da poco terzo produttore di dolciumi in America, dove dovrà cercare di ottenere una stazza tale da non essere aggredita magari attraverso lo sbarco in Borsa. Oppure nel caso di Atlantia che per conquistare la spagnola Abertis, e diventare un player mondiale nelle infrastrutture autostradali, sta contrastando l’offerta concorrente di Hochtief, controllata dal costruttore spagnolo Acs. Ma quando accade che un’azienda italiana viene comprata, il riflesso pavloviano è quello di condanna del capitalismo tricolore pigro, imbelle e incapace. Può essere in realtà positivo che un investitore estero gestisca un’impresa italiana. Secondo l’edizione 2017 dei dati cumulativi di 2.065 imprese italiane a cura dell’Area Studi Mediobanca, durante gli anni della crisi (2008-2016) le imprese manifatturiere medie e medio-grandi guidate da imprenditori italiani hanno registrato migliori performance commerciali per via dei legami di fiducia costruiti negli anni con i clienti. Ma quelle a controllo estero, come Siemens, General Electric o Parmalat, hanno usato gli anni duri per ristrutturarsi privilegiando in maniera quasi maniacale l’efficienza e la redditività peraltro aumentando i salari, scegliendo manodopera con alte competenze, e ridotto in modo minore gli investimenti rispetto a quelle a controllo italiano. Un atteggiamento insomma tutt’altro che rapace quello dei conquistadores.

   

Quando poi un investitore estero entra in banca è immediato l’istinto a parlare di colonizzazione. Unicredit ha risolto l’aumento di capitale più grande nella storia di Piazza Affari cambiando completamente faccia: sono usciti le fondazioni e i problematici soci libici e nella compagine azionaria dominano i fondi americani, con un assetto da public company. Se poi l’oggetto di acquisti è il debito pubblico non mancano mai le critiche preventive per la cessione di sovranità alla finanza cosmopolita, qualsiasi cosa voglia dire in un contesto come quello dell’Eurozona in cui la sovranità è circoscritta dalle regole di un sistema monetario condiviso. Quando si parla di debito la preoccupazione diventa comunque terrore. Un rapporto di Unimpresa affermava che un terzo del debito è in mano a investitori stranieri (quota negli ultimi due anni scesa dal 34 al 32 per cento) e sollevava dubbi, con l’avvicinarsi delle elezioni, perché “siamo sempre sotto pressione, e il potere delle grandi banche d’affari internazionali, che hanno la maggioranza relativa di ‘Italia spa’, è enorme”. Il fatto che l’Italia, nonostante un rating del merito di credito sotto la A, sia considerata degna di fiducia dall’estero è in realtà positivo. Sarebbe grave se ci fosse penuria di acquisti da oltre confine. L’approccio un po’ pedagogico di Padoan sul caso Ntv dovrebbe fare scuola.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.