Liberalizzare la sicurezza

Carlo Alberto Carnevale Maffé

Il mercato può darci un servizio moderno, efficiente e lontano dai beceri populismi

La sicurezza è un servizio offerto dallo Stato in sostanziale monopolio. E’ ora di esporlo, almeno in parte, alle dinamiche di mercato, e ai possibili effetti positivi in termini di efficienza economica, disciplina giuridica e processi di cambiamento tecnologico e organizzativo. Weberianamente, il monopolio statale della violenza legittima va correttamente limitato all’applicazione della giustizia e alla difesa nazionale. Le altre voci della sicurezza possono e, visti gli insufficienti risultati dell’esclusiva statale in tema, devono diventare terreno di applicazione di logiche di mercato. L’Italia e tutta l’Europa hanno bisogno di rispondere alle nuove sfide geopolitiche con l’innovazione e la trasparenza, se vogliono bonificare lo stagno putrido dove sguazza il populismo neofascista, ma anche più pragmaticamente ridurre la pessima allocazione di risorse pubbliche e private e la conseguente inefficienza del settore assicurativo, complemento economico fondamentale del mercato della sicurezza.

  

Il monopolio statale della violenza legittima va limitato all'applicazione della giustizia e alla difesa nazionale

Le ragioni per sviluppare un mercato regolamentato dell’offerta di sicurezza sono molteplici: il fenomeno più chiaro è l’inflazione da domanda di protezione, misurata da moltissime ricerche di mercato in materia. L’esplosione del fabbisogno (percepito) di sicurezza viene alimentata non tanto dalle statistiche sulla criminalità, che al contrario sono in costante diminuzione, bensì in buona parte dall’azzardo morale di diversi gruppi editoriali e politici. I primi interessati a guadagnare audience, i secondi a procurarsi voti, scaricando sulle contraddizioni collettive i costi del proprio opportunismo. I dati sullo sproporzionato spazio editoriale dedicato alla criminalità da parte dalle tv nazionali, diffusi recentemente dalla Fondazioni Unipolis, sono emblematici. Le tv italiane dedicano alle notizie ansiogene sulla criminalità 6 volte lo spazio allocato dalle omologhe tedesche, oltre il 50 per cento in più della media europea. L’azzardo morale dei media televisivi è legato al fatto che o sono pubblici, o dipendono da concessioni pubbliche, quindi hanno interesse a dare risalto ai politici che le controllano e/o garantiscono, oltre al fatto che dipendono (Rai inclusa) dalla raccolta pubblicitaria e quindi dalla massimizzazione dell’audience. I media lineari come la tv hanno una responsabilità particolare nell’uso – e nell’abuso – dell’attenzione umana, bene scarso per definizione nonché estremamente prezioso a fini commerciali oltre che politici.

  

A fronte di una domanda crescente, per quanto spesso ingenua, immatura e strumentalmente male informata, si è palesata negli ultimi anni l’inadeguatezza del monopolio istituzionale, nazionale ed europeo, della pubblica sicurezza, specie sui temi del controllo dell’immigrazione, anche quando esso si è avvalso del volontariato privato e di forme cooperativistiche di servizi di accoglienza. Il giudizio che può essere dato della pasticciata e inefficace soluzione adottata finora è purtroppo insoddisfacente.

  

Il caso delle ong sui migranti è un chiaro esempio negativo su come (non) organizzare un mercato di servizi complementari alla sicurezza pubblica. Il fatto che l’intervento delle ong venisse inizialmente percepito come esclusivamente “umanitario” ma poi abbia fatto emergere, necessariamente, una dimensione economica (con conseguenti polemiche sui “contributi” per recupero e accoglienza), provoca sconcerto nell’opinione pubblica, tanto legittimo quanto ingenuo. Solo le anime belle possono pensare che la solidarietà, specie quella che richiede l’allocazione di imponenti mezzi organizzativi, possa sottrarsi alle dinamiche economiche. Quando queste ultime diventano significative, il nesso logico rischia di invertirsi: e la solidarietà finisce paradossalmente per essere percepita come un cinico business. Scandalizzarsi è illusorio o, peggio, strumentale.

  

E’ giusto che solidarietà e sicurezza siano (anche) un mercato, purché trasparente, competitivo e rispettoso delle regole. Altrimenti si passa dall’ingenuità dell’accoglienza come imperativo etico assoluto, senza apparente riguardo per leggi e impatti sociali e organizzativi, all’estremo opposto della xenofobia, del complottismo, della cultura del sospetto. I protocolli “imposti” alle ong dal ministro Minniti, di concerto con la Ue, sono un primo passo, giustificato ma insufficiente, verso la necessaria complementarietà tra pubblico e privato nella gestione della sicurezza sui flussi migratori. Invece di lamentarsi, pur fondatamente, del disinteresse istituzionale degli altri paesi europei, il governo farebbe bene a proporre un quadro di regole chiare che favorisca la complementarietà tra pubblico e privato in logica di sussidiarietà, invece che intervenire con soluzioni d’emergenza: la sicurezza relativa all’immigrazione è e rimarrà un tema strutturale del contratto di cittadinanza.

  

Il controllo dell'immigrazione, gli attacchi informatici. Problemi che potrebbero essere affrontati con un sistema ibrido pubblico-privato

Il vero pericolo, tuttora trascurato, è invece quello che grava sulla sicurezza informatica, tema sul quale le istituzioni nazionali sono palesemente inefficaci per mezzi e competenze, rispetto alle organizzazioni private, a svolgere adeguata prevenzione. Al contrario della criminalità tradizionale, che è in costante declino ma viene percepita come un pericolo crescente, le minacce alla sicurezza informatica sono in crescita esponenziale, ma la percezione del loro rischio rimane molto bassa, e spesso limitata alle truffe sui sistemi di pagamento. E’ tuttavia proprio su questo terreno che si stanno sperimentando forme ibride pubblico-private di presidio della sicurezza.

  

Il mercato globale della cybersecurity è stimato in oltre 100 miliardi di dollari, ed è previsto raddoppiare, fino circa 200 miliardi di dollari entro il 2022 (fonte: Zion Market Research). In Italia la spesa in sicurezza informatica è in pesante ritardo, ma vale già circa 1 miliardo di euro, e cresce a tassi attesi tra il 5 e il 10 per cento all’anno (fonti: Politecnico di Milano, Assinform). Gli impatti dei cyberattacchi, che sono a tutti gli effetti crimini contro il diritto di proprietà, riguardano già ora milioni di utenti, come nel caso del ransomware Wannacry che ha bloccato per giorni il sistema sanitario britannico, e rivelarsi estremamente costosi. Il Kaspersky Lab ha recentemente censito oltre 45 mila attacchi informatici in circa 100 nazioni. il colosso logistico danese Maersk ha appena stimato in circa 300 milioni€ il costo dell’ultima violazione dei propri sistemi informativi, che a luglio ha compromesso la regolare attività per parecchi giorni. Unicredit è stata vittima nelle scorse settimane di una violazione di dati relativi a 400 mila clienti e ha ribadito alla Bce i propri piani per 2,3 miliardi di euro di investimenti in potenziamento dei sistemi informativi e della cybersecurity. L’insufficienza del solo intervento pubblico sul tema della sicurezza informatica è ormai pacificamente accettata anche in Italia: ne è testimonianza la nascita del CERTFin, centro per la cybersecurity delle istituzioni finanziarie, gestito su base cooperativa da AbiLab e presieduto congiuntamente da Banca d’Italia e Abi, nell’ambito del Quadro strategico nazionale per la sicurezza cibernetica. Quando il livello delle minacce tecnologiche è così elevato, pubblico e privato sono obbligati a collaborare: il monopolio statale della sicurezza deve accettare di essere integrato da adeguate dinamiche di mercato.

  

Di fronte a un fenomeno, giustificato o no che sia, come l’inflazione da domanda di sicurezza, deve poter aumentare l’offerta. Tuttavia, se l’unico fornaio disponibile è lo stato, l’effetto è quello dei manzoniani tumulti del pane di san Martino, ovvero di incanalare l’eccesso di domanda verso gli imbonitori populisti dell’offerta di muri e cavalli di Frisia, a carico di uno Stato che già detiene inquietanti record di crescita del debito pubblico.

  

Per l’Italia e l’Europa, provare a seguire il modello americano del diritto individuale alla difesa armata sarebbe, prima che socialmente rischioso, economicamente inefficiente. La sicurezza moderna non è mito eroico della legittima difesa individuale con le armi da fuoco tradizionali, ma complessa sfida organizzativa che richiede specializzazione, divisione del lavoro, tecnologie sofisticate di monitoraggio, prevenzione e intervento. Stanno nascendo le prime offerte coordinate in merito di sicurezza domestica: le tecnologie di “smart home”, dotate di sensoristica avanzata a controllo remoto, sono un esempio di come essa debba diventare parte di una catena di processi proattivi, organizzati e distribuiti, e non tanto un tema di blindature domestiche e di diritti notturni alla legittima difesa armata. Risposte volontaristiche e velleitarie, come le ronde di quartiere o i comitati popolari di sorveglianza, non servono allo scopo. Anche qui si stanno muovendo le grandi utilities, Enel in testa, che per ora si limitano a offrire semplici soluzioni di sicurezza domestica e ambientale, ma che in alcuni casi stanno già pianificando l’offerta di servizi tecnologici di sorveglianza remota, di concerto con gruppi assicurativi.

  

Un servizio europeo di polizia di frontiera, che fin da subito sarebbe stato l’opportuno complemento organizzativo agli accordi di Schengen, può diventare un primo, sfidante esempio di mercato efficiente della sicurezza pubblica. Mettere a gara il servizio di controllo degli accessi di frontiera dell’area Schengen, con un bando che richieda adeguate soluzioni tecnologiche interoperabili a livello internazionale, finanziandolo con appositi fondi europei o – perché no – con un apposito prelievo fiscale, sarebbe un segnale di intervento tempestivo e trasparente, ristabilendo il necessario legame fra trasferimento di sovranità e allocazione della responsabilità, ma anche tra domanda e offerta di informazioni corrette, trasparenti e tempestive.

  

La sicurezza è una clausola fondamentale del patto di cittadinanza: è inaccettabile assistere passivamente al suo mancato rispetto da parte delle stesse istituzioni che hanno l’impegno di garantirla, ma lo è anche limitarsi a chiederne l’applicazione solo formale e di fatto insoddisfacente. La sicurezza è troppo importante per lasciarla sia alla strumentale inflazione populista sia all’ingenuità etica buonista: la disciplina di mercato può renderla un servizio moderno, efficiente e quindi, occasione di maturazione democratica, invece che clava per il becero opportunismo politico.