Beppe Grillo (foto LaPresse)

La politica del rutto ha un avversario tosto: i fatti

Claudio Cerasa

La crescita migliora, la produzione industriale migliora, la sicurezza migliora, i migranti scendono, i delitti diminuiscono. Al partito del rutto non resta che buttarla in caciara

Nel corso degli ultimi anni, con una forte continuità nei mesi che hanno preceduto il referendum costituzionale, è capitato spesso di vedere sdoganata in contesti molto diversi gli uni dagli altri una forma di approccio alla vita pubblica del nostro paese facilmente riassumibile con una definizione semplice e lineare: la politica del rutto. La politica del rutto è una declinazione di populismo molto particolare, molto accesa, molto violenta e contemporaneamente molto abusata, e le sue caratteristiche sono facili da identificare, sia se le espressioni rutterine, per così dire, vengono esplicitate in un salotto televisivo sia se queste vengono esplicitate in un contesto più ristretto, come può essere una simpatica cena in una terrazza estiva. La politica del rutto, che in passato è arrivata a conquistare anche intellettuali di un certo livello che nel febbraio del 2013 invitavano a non demonizzare il Movimento 5 stelle sul principale giornale della borghesia italiana, tende a costruire attorno a sé consenso sulla base di due princìpi universali. Il primo principio è che il mondo fa schifo, e per questo bisogna trovare velocemente un’alternativa a questo sistema per non farlo andare più così male. Il secondo principio è che chi governa è come Satana, e per questo bisogna trovare velocemente un’alternativa a questo sistema per smettere di avere un mondo come quello attuale governato da farabutti. I due princìpi, tra una digestione e l’altra, si tengono insieme ma il secondo, la delegittimazione dell’avversario con tutti i mezzi disponibili, funziona nella misura in cui viene utilizzato come un mezzo per raggiungere un fine più grande: quello di offrire finalmente a un popolo martoriato un angolo di paradiso.

 

Lo schema descritto è uno schema che può avere un suo appeal solo a fronte di una piccola ma essenziale condizione, che le cose vadano sempre peggio, e che non ci sia alcun tipo di ostacolo e alcun tipo di contraddizione tra il mondo descritto dai rutti e il mondo descritto dai fatti. Se il mondo percepito, improvvisamente, per una qualsiasi ragione, inizia ad assomigliare a un mondo immaginario, a un universo di fantasia, a un pianeta delle scimmie, in un istante i soggetti rutterini si trovano a rappresentare un qualcosa di molto complicato da gestire: un mondo che semplicemente non c’è. Da questo punto di vista, possiamo dire, e possiamo confermare, che l’estate 2017 è un’estate drammatica per i campioni del rutto e non c’è dato e non c’è numero e non c’è trend che non sia lì a mostrare che lo schema populista si trova in una crisi decisamente superiore rispetto allo schema anti populista. Ed è curioso, ma sarà solo un caso, che i fatti inizino a essere particolarmente chiari, verrebbe da dire autoevidenti, proprio nei mesi in cui le verità alternative faticano a trovare un loro spazio in prima serata, complice la pausa estiva di alcuni talk-show. E così, passo dopo passo, ogni giorno scopriamo una serie di cose che misteriosamente non vengono rilanciate né sui blog dei clown politici (aka Beppe Grillo) né sui social dei politici clown (aka Matteo Salvini). Scopriamo così, nell’ordine, che l’Italia non è un paese marcio, in condizioni economiche disperate, ma è un paese che migliora di giorno in giorno, come testimoniato dai dati molto positivi rilasciati lunedì scorso dall’Eurostat (a luglio la produzione industriale dell’Italia è aumentata del doppio rispetto alla media dell’Europa a 19, più 5,3 contro 2,6, e in misura superiore rispetto a Spagna, Francia, Germania e Gran Bretagna) e come testimoniato dai dati molto positivi rilasciati ieri dall’Istat, secondi i quali, nel secondo trimestre del 2017, il prodotto interno lordo è cresciuto dello 0,4 per cento rispetto al trimestre precedente e dell’1,5 per cento rispetto al secondo trimestre 2016 (con il risultato che a metà anno, nel 2017, l’Italia ha già raggiunto il dato stimato nel 2016 per l’intero 2017). Scopriamo questo e scopriamo anche altro.

 

Scopriamo, per esempio, che l’Italia non è un paese “invaso” dai migranti ma è un paese che è riuscito a trovare in modo decisamente veloce una via efficace per governare l’immigrazione e gestire i suoi confini, come testimoniato dai dati molto positivi rilasciati il 15 agosto dal ministero dell’Interno: i migranti sbarcati dal primo gennaio 2017 al 15 agosto 2017 sono 97.293, contro i 101.507 del 2016; dal primo agosto al 15 agosto i migranti sono stati 2.080 nel 2017, contro i 7.773 del 2016; il numero di stranieri regolarmente soggiornanti in Italia tra il 2016 e il 2017 è cresciuto di una quota non proprio da invasione, ovvero più 0,64 per cento; la relocation di migranti arrivati in Italia ha cominciato a funzionare, passando da quota 762 nel 2016 a quota 5.287 nel 2017. Scopriamo questo ma scopriamo anche altro, e scopriamo che, nonostante i quotidiani nazionali dedichino ai delitti locali buona parte della loro fogliazione estiva, in realtà le cose non vanno nella direzione percepita: tra il 2016 e il 2017, nei primi sette mesi dell’anno, i delitti sono diminuiti, passando da 1.463.156 a 1.286.862, e contestualmente sono diminuiti anche gli omicidi (da 245 a 208), le rapine (da 19.163 a 16.991), i furti (da 783.692 a 702.989) e i femminicidi (meno 23 per cento).

Il quadro, per il fronte populista e l’industria del malumore, è oggettivamente desolante e si capisce che ci sia qualcuno che preferisca buttare la palla in tribuna, o buttare tutto in caciara. La crescita migliora, ahi. La produzione industriale migliora, sob. La sicurezza migliora, argh. I migranti scendono, gulp. I delitti diminuiscono, oh my God. E non si può neppure dire che il merito è dell’Europa, santo cielo, perché il codice del perfetto populista da anni prevede che alla base dei disastri dell’umanità ci sia proprio l’Europa, e in particolare l’euro – che incidentalmente negli ultimi mesi ha però fatto segnare numeri e prestazioni da record, arrivando a essere una delle monete più forti e solide del mondo.

Oggettivamente è davvero un’estate tremenda per i populisti e lo è non soltanto perché le verità alternative stanno trovando un avversario difficile da affrontare, chiamato “fatti”, ma lo è perché per la prima volta da molti anni la politica del rutto, per non essere considerata completamente al di fuori del mondo, è costretta a rivedere comicamente il suo lessico e a sperimentare una formula dialettica complicata da gestire, che è tutta nella sostituzione di una parola, in un passaggio: dal “no” al “però”. Il passaggio dal “no” al “però” è un passaggio cruciale e molto spericolato e prevede un’evoluzione della critica al sistema che suona più o meno così: non potendo più dire che il sistema non funziona, bisogna aggiornare il lessico spiegando che “le cose devono funzionare meglio”, “che non è stato fatto abbastanza”, “che l’Italia merita di andare più veloce”, e così via. Non si può dire dunque “no, le cose non funzionano” ma bisogna dire “le cose non funzionano abbastanza”. E dunque. L’Italia cresce, ma non a sufficienza. La sicurezza migliora, ma non abbastanza. L’immigrazione è stata governata, ma non in modo soddisfacente.

 

Il passaggio dal no al però è, come è evidente, un passaggio drammatico per il professionista del rutto, perché porta a dover scegliere tra due strade da seguire, che sono una più comica dell’altra. La prima strada prevede una responsabilizzazione della politica del rutto. La seconda strada prevede invece una moltiplicazione della politica del rutto. Entrambe le strade sono molto spassose ma nell’attesa di capire che direzione prenderanno i Di Maio e Associati e i Salvini e Affiliati (i primi hanno reagito d’istinto aprendo la bocca ancora di più, e giustificando una forma di abusivismo; i secondi hanno reagito cercando di trasformare i rutti da sfascisti in gargarismi da tenori), l’estate del nostro contento del 2017 ci permette non solo di osservare in modo genuino la differenza tra l’Italia reale e l’Italia percepita ma anche di osservare in modo più genuino cosa resta del populismo quando il populismo non riesce più a trarre beneficio dalla droga del paese percepito. E quello che resta lo abbiamo accennato all’inizio del nostro articolo e ciascuno di voi lo avrà notato in una qualsiasi occasione di convivialità estiva: se il sistema contro il quale si combatte non produce risultati disastrosi, non resta che scommettere tutto sull’evoluzione naturale della politica del rutto, che coincide con la politica dello sputo, con la tecnica della delegittimazione degli avversari. Tecnica che di solito funziona così: si personalizza lo scontro focalizzando l’attenzione sul soggetto dello scontro e prescindendo dal contesto dello scontro e si trova un qualsiasi pretesto (a) per rovesciare sull’avversario tonnellate gratuite di fango e (b) per dimostrare che la battaglia contro le élite è una battaglia più grande, una rivoluzione universale, che deve essere combattuta senza tentennamenti alcuni (e se le élite della politica non sono così un disastro tanto vale spostare la mira e puntare sulle élite della scienza).

 

Per carità. La politica dello sputo non è certo un’invenzione del moderno fronte populista, ma in questa particolare fase storica in cui si trova il nostro paese l’approccio appena descritto presenta un piccolo problema: lo sputo può aver un senso se è un mezzo per raggiungere un fine, ma quando il fine non si vede più, e l’universo promesso diventa un universo che non c’è, lo sputo diventa non più un mezzo ma semplicemente un fine. E quando la politica dell’anti-tutto (e del rutto) non trova altra strada che la delegittimazione per competere con i suoi avversari, di solito questa strada si trasforma in una legittimazione degli argomenti degli avversari. Da qui alle prossime elezioni, il populismo resterà la grande droga politica contro la quale la politica del buon senso proverà ad affermarsi. Ognuno farà la scelta che crede e seguirà la strada del cuore ma oggi possiamo dire che l’abuso di quella droga, la droga del populismo, la droga del paese descritto più per quello che non è che per quello che è, ha prodotto un paese percepito che semplicemente non c’è. E chissà se di fronte ai fatti concreti che battono le verità alternative ci sarà qualcuno che sceglierà di non farsi più allucinare dall’Lsd populista e che proverà a mostrare il mondo finalmente per quello che è.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.