Il premier olandese vincitore delle recenti elezioni, Mark Rutte (Foto LaPresse)

Troppe bugie sulla Italexit

Carlo Cottarelli

Uscita dall’euro e doppia moneta pari sono. Un po’ di deficit non aiuta la crescita (vedi Giappone). Meglio la Spagna: recuperare competitività sui costi di produzione

Con questo articolo, Carlo Cottarelli, economista, direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, ex commissario alle spending review del governo italiano, inizia la sua collaborazione con il Foglio

 


 

Scampato il pericolo delle elezioni olandesi, il futuro dell’euro non si giocherà nelle tornate elettorali francesi o tedesche del 2017, ma in quelle italiane, probabilmente nei primi mesi del 2018. In Francia, Marine Le Pen perderà al secondo turno: per quanto imprecisi siano i sondaggi, soprattutto se ci sono movimenti populisti di mezzo, il margine a suo sfavore è troppo ampio. In Germania, l’AfD non ha possibilità di batter il duopolio Merkel-Schulz. Le cose sono invece a rischio in Italia. Con la ripresa da parte di Berlusconi dell’idea di una moneta parallela all’euro, i partiti euroscettici rappresentano probabilmente la maggioranza: Cinque stelle, Lega nord, Fratelli d’Italia e, ora, Forza Italia. Chiariamo una cosa: introdurre una moneta parallela equivarrebbe, di fatto, all’uscita dall’euro. Berlusconi dice che la nuova lira sarebbe utilizzata dallo stato per le proprie transazioni domestiche (spesa pubblica e tasse) e che l’euro verrebbe usato per le transazioni con l’estero. Questo è ovvio. I fornitori dell’Italia certo non accetterebbero nuove lire! E’ anche possibile che l’euro continui a essere usato per certe transazioni domestiche. Ma lo stesso accadrebbe anche se uscissimo formalmente dall’euro: tanti paesi utilizzano una moneta straniera per le proprie transazioni perché non hanno fiducia nella moneta nazionale. Quindi, in termini economici, non c’è molta differenza tra uscire dall’euro e introdurre una moneta parallela.

 

Ma farebbe bene all’Italia uscire dall’euro? Secondo me no e vi spiego perché.
Chi sostiene l’Italexit lo fa in base a due motivazioni. La prima riguarda l’uso dei conti pubblici per stimolare la crescita. Si dice: se uscissimo dall’euro potremmo avere un deficit pubblico più alto, potremmo tagliare le tasse e spendere di più, il che ci permetterebbe di crescere più rapidamente. Ci sono due varianti di questa storia. Prima variante: fuori dall’euro, non saremmo più soggetti alle regole europee e potremmo finanziare un deficit del 4-5 per cento emettendo più titoli di stato. Questa variante è però poco credibile. Quello che vincola l’emissione di titoli di stato non sono le regole europee, ma il nostro elevato debito. Se avessimo un deficit del 4-5 per cento, i mercati ce lo farebbero subito pagare con tassi di interesse più elevati, il che farebbe malissimo all’economia. A un certo punto smetterebbero di finanziarci. Fra l’altro, i tassi sui titoli di stato italiani sono attualmente ancora bassi proprio perché la banca centrale europea ne sta comprando una discreta quantità ogni mese (col suo programma di quantitative easing), il che non avverrebbe se uscissimo dall’euro. Seconda variante della storia: il maggiore deficit potrebbe essere finanziato non vendendo titoli di stato sul mercato (e quindi aumentando il debito) ma stampando nuove lire, ossia vendendo titoli a una Banca d’Italia che perderebbe, almeno di fatto, la sua indipendenza.

 

Questa variante è fattibile in pratica ma comporterebbe l’asservimento della Banca d’Italia alle finalità di finanziamento del deficit pubblico, con un’immediata perdita di credibilità per la nuova lira. La nuova lira nascerebbe male, con una forte inflazione e svalutazione. Non sarebbe neppure una storia nuova: ci siamo passati negli anni ’70, quando la Banca d’Italia finanziava massicciamente il deficit pubblico. Avevamo un’inflazione di oltre il 20 per cento e non è che ci piacesse molto. Una nuova lira porterebbe probabilmente a un’inflazione molto più elevata di quella degli anni ’70, non fosse altro perché sarebbe introdotta proprio con lo scopo di finanziare un maggior deficit. Certo ci sarebbe qualche vantaggio per i conti pubblici: ci penserebbe la violenta inflazione, dopo la conversione forzosa in nuove lire del debito pubblico, a eroderne il valore. Ma si tratterebbe di una bancarotta mascherata, una tassa su chi ha investito, direttamente o indirettamente, in titoli di stato. Ora, c’è chi dice che il finanziamento monetario di un maggior deficit non causerebbe svalutazione e inflazione. Guardate al Giappone: negli ultimi 8 anni un deficit pubblico medio dell’8 e mezzo per cento del Pil è stato interamente finanziato dalla banca centrale giapponese, eppure l’inflazione è rimasta bassa. Perché non potrebbe succedere lo stesso in Italia? Non illudiamoci: in Giappone non c’è inflazione perché le banche commerciali di quel paese sono disposte a detenere enormi quantità di depositi (la liquidità creata dalla banca centrale quando compra titoli di stato) inattivi presso la banca centrale. Questo accade per vari motivi tra cui la bassa propensione dei giapponesi a speculare contro la propria valuta nazionale. Pensate che le banche italiane sarebbero disposte a fare lo stesso, cioè a tenersi, buone buone, enormi depositi di nuove lire presso la Banca d’Italia piuttosto che venderle per comprare euro? Non le metterei alla prova. Un’ultima osservazione: non è che il Giappone, nonostante i suoi elevati deficit pubblici, sia messo bene in termini di crescita. Italia e Giappone non crescono per motivi strutturali e un po’ più di deficit non cambia molto la situazione.

 

Veniamo alla seconda motivazione per l’Italexit. Se uscissimo potremmo recuperare competitività e crescita svalutando la nuova lira. L’Italia non cresce perché abbiamo perso competitività e abbiamo perso competitività perché non possiamo più svalutare, cosa che facevamo periodicamente prima di entrare nell’euro. Devo ammettere che qui gli euroscettici hanno in parte ragione. I dati ci dicono che per parecchi anni dopo l’entrata nell’euro i nostri costi di produzione (in particolare il costo del lavoro per unità di prodotto) sono cresciuti molto più rapidamente che in Germania. Questo non accade più ora, ma ci portiamo dietro un divario di competitività di una ventina di punti percentuali rispetto alla Germania. Svalutando potremmo eliminare questo divario e torneremmo a crescere.

 

Vero, ma chi vi racconta questa storia non ve la dice tutta. La parte che non viene raccontata, per motivi comprensibili, è che il recupero di competitività da parte delle imprese italiane avverrebbe solo se i salari crescessero meno della svalutazione e della inflazione che ne deriverebbe. In questo caso, però, i salari reali verrebbero tagliati. Questo non sarebbe un indesiderato effetto collaterale, ma sarebbe proprio il meccanismo – meglio non pubblicizzarlo troppo, no? – attraverso cui le imprese recupererebbero competitività e margini di profitto. Non basta però questa obiezione. Che piaccia o no, tanti paesi sono passati per questa strada, svalutando e recuperando competitività. Qualche volta è inevitabile per tornare a crescere. Ma è la strada migliore? Uscire dall’euro avrebbe costi di transizione molto elevati, soprattutto in termini di incertezza, e sapete quanto male l’incertezza faccia all’economia. Con tutta probabilità la svalutazione sarebbe inizialmente persino più alta del necessario (un “overshooting” del cambio è un classico in questi casi), il che avrebbe effetti devastanti per chi è indebitato in euro. L’uscita dall’euro creerebbe anche enormi complicazioni per il sistema dei pagamenti, e, come ha ricordato di recente Draghi, comporterebbe la necessità di ripagare il saldo debitorio che abbiamo verso la banca centrale europea. Insomma, sarebbe un salto nel buio.

 

Ma c’è un’alternativa? Certo: occorre fare quello che sta facendo la Spagna, e cioè recuperare competitività e crescita attraverso una riduzione dei costi di produzione e, quindi, senza svalutare. Ridurre i costi di produzione può essere fatto tagliando i salari nominali, il che, lo capite bene, è poco piacevole. O può essere fatto attraverso riforme che aumentino la produttività o che comunque riducano i costi che un’impresa affronta in Italia. Al primo posto tra queste riforme metterei il taglio della tassazione, che però deve essere finanziata da un taglio della spesa pubblica per essere credibile.

 

Prioritarie sono anche riforme che portino a una maggiore concorrenza (ci sono stati ritardi in questa area negli ultimi due anni), a una giustizia civile più rapida (c’è qualche miglioramento ma ancora insufficiente), a una semplificazione dei vincoli burocratici sulle imprese. Non illudiamoci che questa sia una strada facile da percorrere. Ma resta al momento preferibile al salto nel buio dell’uscita dall’euro. Sempre che ci muoviamo per tempo. I tassi di interesse cominceranno ad aumentare in un futuro non troppo lontano, il che porrà pressione sui paesi ad alto debito e bassa crescita, come il nostro. La tenuta dell’euro potrebbe a quel punto essere di nuovo testata dai mercati finanziari, come è avvenuto nel 2011-12. Non sarebbe una esperienza piacevole.

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