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Improduttività nazionale

Renzo Rosati
I dati Istat sulla produttività in Italia rispetto all’Europa spiegano più di molte chiacchiere perché siamo da anni zavorrati da una crescita di pochi decimali, con ricadute sul lavoro.

Roma. I dati Istat sulla produttività in Italia rispetto all’Europa spiegano più di molte chiacchiere perché siamo da anni zavorrati da una crescita di pochi decimali, con ricadute sul lavoro (l’Istat dice anche che a settembre aumentano sia i disoccupati, dello 0,2 per cento, sia gli occupati, di due punti: più persone cercano lavoro ma la ripresina non basta). Nel 2015 la produttività italiana è diminuita dello 0,3 per cento, mentre nell’Unione europea è aumentata dell’1,6, nel Regno Unito dell’1,2, in Germania dello 0,9, in Spagna dello 0,6. Negli anni 1995-2015, poi, l’aumento è stato di tre decimali rispetto al punto e mezzo e oltre di Germania, Francia, Regno Unito. I dati di settore rivelano che più che la manifattura (in minima crescita dal 2009) sono i servizi e il terziario a produrre questo gap. E dunque le responsabilità facilmente individuabili. La Confindustria con la presidenza di Vincenzo Boccia solo ora pare imboccare con maggiore convinzione la via della produttività, basata sui contratti aziendali a scapito della tranquillizzante pace consociativa.

 

Tra i predecessori di Boccia ci aveva provato Emma Marcegaglia, ma fu costretta a fare dietro front dopo il muro contro muro voluto da Susanna Camusso, leader della Cgil. Anche per questo l’esempio di Sergio Marchionne, uscito dalla Confindustria proprio per lo scarso impegno sulla produttività aziendale, resta alquanto isolato: i suoi stabilimenti primeggiano in Europa mentre la pur timidamente positiva produttività manifatturiera resta in coda. Quanto ai sindacati, parla da sola la pagina pubblicata sui grandi quotidiani dalle confederazioni per propagandare lo sciopero di oggi nelle Poste: vi campeggia un “No alla privatizzazione”, e giù i motivi per preferire il padrone pubblico, compresa la “riduzione dei fattori di stress”, “avere uffici con il personale al completo”, “una corretta applicazione del codice disciplinare”, “un recapito di qualità e non a giorni alterni”. Soliti tic protezionisti e anti capitalisti. Il terzo corno del problema sono i governi degli ultimi venti anni: solo in questa manovra 2017 sono presenti in maniera più incisiva fattori di produttività, da Industria 4.0 agli sgravi fiscali più collegati ai contratti aziendali e meno a pioggia. Poi ci sono le autotutele corporative di settori largamente improduttivi, tra i quali svetta oggi (e costituisce un rischio “sistemico”) quello delle banche, con personale e sportelli in eccesso, contratti più accomodanti rispetto alle leggi nazionali e servizi che solo le associazioni sindacali e imprenditoriali di categoria descrivono a livello europeo.

 

Eppure con la mole di risparmio italiano le banche dovrebbero campare letteralmente di rendita, come Roma con i suoi monumenti. Ma in entrambi i casi, la manna dal cielo non stimola né lavoro né innovazione né concorrenza. Sulla concorrenza stendiamo un velo sui ritardi della legge che porta il suo nome, e guardiamo all’accoglienza che il mood sindacal-mediatico riserva sistematicamente a McDonald’s, Ikea, Amazon e altri big della new e old economy, con i loro standard concorrenziali e produttivi: per i quali peraltro non si segnalano vittime e drammi sociali nel resto del mondo. Qui restano simboli “amerikani” di sfruttamento e lavoro di serie C, per citare la Cgil. D’altra parte siamo il paese che s’appassiona sempre e soprattutto alle pensioni; mentre ai giovani, anziché offrire agenzie di formazione e lavoro, lo stato e i media spiegano in toni drammatici quanto dovranno aspettare per smettere di lavorare. Come meravigliarsi se siamo in coda all’Europa (per non parlare di Stati Uniti e oriente)?