Lo spettro di Hanjin. Una bancarotta sudcoreana scuote l'industria del container
Roma. La teoria del “commercio dolce” attribuita al filosofo francese Montesquieu, citata ne “Lo Spirito delle leggi” (1748), ha influenzato nella prassi le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale che per decenni hanno esaltato la globalizzazione in quanto forza capace di scoraggiare o prevenire conflitti bellici – più convincente delle ideologie. Se Montesquieu fosse vivo sarebbe allarmato dall’inversione di tendenza nell’establishment politico occidentale che, con una sorta di “atto di abiura” del libero scambio, invoca dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Germania al Regno Unito, inasprimenti delle barriere commerciali e la rinuncia ad accordi transcontinentali in fieri.
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ieri alla Casa Bianca per l’ultimo banchetto di gala organizzato dal presidente uscente Barack Obama, avrà avuto occasione di ribadire l’appoggio “totale e incondizionato” di Roma al trattato di libero scambio euro-atlantico, il Ttip, sebbene sia senza speranze di successo: né il candidato repubblicano, Donald Trump, né quello democratico, Hillary Clinton, vogliono realizzarlo. L’ondata neoprotezionista giunge mentre la filiera dei commerci – la rete materiale della globalizzazione – è invischiata in una crisi di portata epocale: per la prima volta in quindici anni la crescita del commercio mondiale sarà più bassa di quella del pil, secondo il Wto. L’industria del commercio marittimo via navi portacontainer è destabilizzata. Il 4 settembre la bancarotta dell’indebitata compagnia sudcoreana Hanjin Shipping è stata un evento inatteso, complicato da arginare per gli operatori del commercio mondiale, che ha innescato una crisi di sfiducia paragonabile a quella di Lehman Brothers.
Hanjin, copiosamente sussidiata da banche parastatali e dai finanziamenti interni alla conglomerata madre, la Hanjin Group, non è stata soccorsa dal governo conservatore di Seul e ha richiesto la procedura fallimentare. Hanjin ha fermato una flotta di 87 navi container, bloccate in mare, nei porti, o appena fuori da essi per evitare aggressioni da parte dei creditori, lasciando nel limbo merci per un valore di 14 miliardi di dollari. Hanjin rappresenta solo il 3 per cento del trasporto marittimo mondiale ma la sua bancarotta è considerata sistemica dagli esperti che l’hanno paragonata a quella di Lehman Brothers: ha dimostrato per la prima volta che la cinghia di trasmissione dei commerci soffre e che l’industria non sarebbe in grado di sopportare fallimenti a catena di altre multinazionali del mare di pari o maggiore dimensione. A.P. Møller-Maersk, prima compagnia di logistica navale al mondo, ha separato il business commerciale da quello petrolifero per ridurre i costi. Piccoli operatori, come la tedesca Rickmers, sono in crisi. Altri annaspano.
“Non è Hanjin in sé a preoccupare, quanto il fatto che sia venuta meno la fiducia nella certezza delle forniture, che non sia affatto facile arginare eventi del genere in futuro, e che il tessuto connettivo della globalizzazione, ossia il trasporto via mare, sia lacerato”, dice Gian Enzo Duci, presidente di Federagenti, padrino dell’accostamento tra Hanjin e Lehman rimbalzato sui media. Le merci di Hanjin d’interesse italiano ammontavano a 1 miliardo di dollari circa, per metà importazioni e per metà esportazioni, e la crisi ha investito il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e quello dello Sviluppo economico. Solo domenica scorsa i 3.000 container destinati in Italia sono stati scaricati al porto di Genova dopo essere transitati in quello spagnolo di Valencia dov’erano immuni da sequestri.
L’industria navale italiana vale il 2,7 per cento del pil ma il suo peso non è percepito allo stesso modo del manifatturiero: se la catena s’interompesse, scomparirebbe dai supermercati circa l’85 per cento della merce solitamente reperibile. Il trasporto intermodale attraverso contenitori fu creato sessant’anni fa dall’imprenditore americano Malcolm P. McLean, un ex camionista, il quale applicò princìpi dell’industria fordista al carico e scarico di merci, creando un sistema replicabile su grande scala. Dopo aver letto “The Box”, saggio di Marc Levinson su come i container hanno reso “piccolo e grande il mondo”, anche Bill Gates s’è convinto che le “scatole” di McLean costituiscono il secondo pilastro della globalizzazione, insieme all’informatica diffusa da lui inventata. E ora questo pilastro è a rischio.