Perché i paesi si rivoluzionano con le riforme liberali. Il caso Irlanda

Maurizio Stefanini
Le lezioni ai neo protezionisti dai governi che stanno riuscendo ad abbassare le tasse e ad aprirsi al mercato.

Anche qui, malgrado la crisi che aveva colpito il paese a seguito dello scoppio della bolla finanziaria, il governo è riuscito a resistere alle pressioni dell’Ue per aumentare quella famosa aliquota dell’imposta sulle società al 12,5 per cento: soglia che spinge le multinazionali a stabilire sedi dalle parti di Dublino. E lo scorso mese una revisione della crescita a cura dell’Ufficio Centrale di Statistica ha calcolato per il pil nel corso del 2015 una crescita mostruosa del 26,3 per cento: un boom dovuto soprattutto all’aumento del numero di aerei importati in Irlanda per attività di leasing e, appunto, all’impennata della massa di capitale delle multinazionali con sede nel paese. E sì che non era neanche iniziato quell’effetto Brexit, per cui sempre Dublino è la capitale Ue di lingua inglese più vicina a Londra. 

 

Ovviamente proprio questo affollarsi di società fa si che il pil, in cui si misura la somma dei beni e servizi finali prodotti all’interno di un paese in un dato periodo di tempo, sia forse meno affidabile del Pnl, somma dei beni e servizi prodotta dai semplici residenti del paese. Anche togliendo quel che è stato prodotto in Irlanda da imprese straniere la crescita del 2015 è stata comunque record: +17,5 per cento, con un +4,5 per cento dei consumi e un calo della disoccupazione dal 15 al 9,4, mentre dopo essere passato tra il 2007 al 2012 dal 23,9 al 123,7 per cento il debito pubblico è tornato al 75 per cento. Toccando gli oltre 300 miliardi di deduzioni, detrazioni ed esenzioni fiscali a favore di categorie privilegiate della Tax Expenditure in Italia si potrebbe fare qualcosa di simile anche senza violare il Patto di Stabilità europeo.

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