Il riflusso della "ConfExit" dopo le statistiche propagandistiche dell'éra Boccia

Alberto Brambilla

Proseguono le defezioni simboliche dalla Confindustria di Boccia, dopo Kerakoll anche Sky si distacca. La "ConfExit", l'uscita dall'associazione è una questione da prendere sul serio.

Roma. Confindustria ha palesato e confermato la sua appassionata difesa del referendum costituzionale in più occasioni. Il neopresidente Vincenzo Boccia ne ha fatto il punto qualificante dell’incipit del suo mandato quadriennale, incassando l’appoggio della maggioranza degli associati rappresentati dal Consiglio generale, il parlamento confindustriale, il 23 giugno scorso. Boccia è andato anche oltre.

 

Sull’onda del diluvio di previsioni statistiche sull’impatto della Brexit, Confindustria ha preparato le sue sull’impatto di un “no” al referendum costituzionale. Il Centro studi di Confindustria, che pure nel recente passato si era distinto per un lavoro impeccabile sulle previsioni congiunturali, ha paventato scenari economici catastrofici nell’eventualità di un’opposizione popolare all’abiura del totem del bicameralismo perfetto e conseguenziali dimissioni del governo Renzi. Un contraccolpo ci sarebbe di certo, ma quantificarlo in un biennio di recessione con pretesa di veridicità è opera da visionarie Cassandre. Analisti e commentatori – come l’ex ministro delle Finanze Francesco Forte sul Giornale – non a torto hanno da subito schernito la validità statistica dell’esercizio non richiesto, paragonandolo a una fiction.

 

La vera telenovela da seguire sugli schermi di Viale dell’Astronomia non è però quella referendaria ma il suo sequel sugli assetti dell’associazione imprenditoriale. La forte caratterizzazione politica del mandato di Boccia – che da subito si è definito “corresponsabile” col governo Renzi della crescita nazionale – sta producendo dei microsismi continui dentro l’associazione. Movimenti palesi e sommersi che possono modificare assetti e potenzialità future del sindacato datoriale. Indugiare su temi pur importanti della politica nazionale potrebbe infatti essere rischioso addirittura per l’esistenza del partito degli industriali così come l’abbiamo conosciuto in tempi recenti oppure ingolfare un pur necessario processo riformatore. Insistere sul punto politico può accentuare il risentimento di alcuni associati del nord produttivo – Lombardia, Emilia-Romagna, nord-est – che dicono sia in camera caritatis sia apertis verbis di sentirsi sottorappresentati. Sono un’opposizione di minoranza che Boccia ultimamente è anche riuscito a contenere e a sedare grazie alla distribuzione di incarichi nelle direzioni generali a esponenti della corrente avversa alla sua che sostenne Alberto Vacchi nella campagna elettorale.

 

Tuttavia essere stato eletto presidente con la maggioranza più sottile dalla fondazione nel 1910 (66,7 per cento dei voti) grazie ai voti delle aziende di stato, che hanno amministratori scelti dall’attuale esecutivo, può rappresentare un punto di debolezza per Boccia nei confronti della stragrande maggioranza delle imprese associate che sono private di piccole e medie dimensioni. Nel giro di un mese e mezzo circa Boccia non a caso ha dovuto incassare le defezioni di Sky, uscita dalla Confindustria Tv, e di Kerakoll, multinazionale chimica emiliana. Segno che le imprese capaci di competere nella perigliosa arena globale soffrono l’attivismo politico dei vertici dell’associazione e di riflesso stressano, anche a volte esagerando, la visione novecentesca del sindacato degli imprenditori (che invece si è dimostrato più pragmatico di quello dei lavoratori). La tendenza a uno stillicidio di "ConfExit", uscite da Confindustria, non è un rischio nuovo e anzi spesso è stato esaltato dai media. Tuttavia il rischio non va preso sottogamba. In coda alla polemica sulle previsioni post-referendum Tito Maggio, senatore dei Conservatori e Riformisti, ex di Scelta Civica, e imprenditore del mobile, intervistato dal Tempo ha invitato gli associati a seguire l’esempio della Fiat di Sergio Marchionne e lasciare l’associazione nazionale.

 

La conseguenza più grave non sarebbe la perdita di influenza – che già non è irresistibile – o di iscritti e quindi di contributi – gli iscritti sono sostanzialmente stabili a 150 mila associati, stando al bilancio 2015 –, quanto piuttosto la perdita di imprenditori privati che guidano imprese globalizzate di media stazza i quali potrebbero contribuire a fare progredire l’associazione secondo le esigenze scandite dalla post-modernità (e che l’Italia sia entrata nella modernità è già oggetto di disputa). Conservare appieno la possibilità di fare circolare quelle idee che solo le imprese più numerose e dinamiche possono diffondere consentirebbe alla Confindustria di Boccia di respingere al mittente le accuse di soffrire di un’incurabile sindrome novecentesca.  

 

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.