Vivendi e Telecom. Contese e battaglie in Borsa appena sotto il pelo dell'Opa

Renzo Rosati
Il tentativo (fermato) del raider Singer di ostacolare la vendita di Ansaldo a Hitachi.

Roma. Da inizio anno l’indice Ftse Mib della Borsa di Milano, i 40 titoli maggiori, è sceso del 15 per cento. Nello stesso periodo la Telecom ha perso il 14,3 per cento in pratica duplicando il listino. Eppure l’11 marzo il gruppo multimediale Vivendi del finanziere francese Vincent Bolloré ha portato la partecipazione nell’ottava azienda italiana per capitalizzazione al 24,9 per cento, dal 14 col quale vi era entrato a giugno. Soprattutto ne ha assunto il controllo, ottenendo le dimissioni dell’ad Marco Patuano e disegnando nuove strategie che spaziano dalla telefonia alla televisione, coinvolgendo in forme da definire anche Mediaset. Come mai i piccoli azionisti della compagnia ex monopolista non ne hanno beneficiato? Vivendi è stata attentissima a non superare in Telecom la soglia del 25 per cento oltre la quale scatta l’Opa obbligatoria, cioè l’offerta pubblica di acquisto che incorporando il premio di maggioranza va appunto a beneficio degli investitori retail (con gli altri i conti vengono in genere regolati a parte). E’ il risultato dell’osservanza un po’ furbastra, e non l’unico caso, delle norme che dal 1998, e poi con il recepimento della direttiva europea del 2004, regolano l’Opa in Italia. E per questo e proprio in riferimento a Telecom, sulla quale all’epoca incombeva la spagnola Telefonica, a ottobre 2013 il senatore pd Massimo Mucchetti promosse una mozione che impegnava il governo a obbligare gli scalatori all’offerta pubblica e alla remunerazione degli azionisti di minoranza anche quando avessero assunto il controllo di fatto di un’azienda, per esempio nominandone i vertici. La mozione ebbe il sostegno bipartisan del Senato ma poco appeal verso il governo Letta. Però con Matteo Renzi premier, nel luglio 2014, è stata abbassata la soglia dell’Opa per le grandi aziende, dal 30 al 25. Ma il problema resta. La Telecom però, con tutti i suoi rivolgimenti azionari paralleli ai cambi di governo, ne è la sublimazione: a oggi le uniche due Opa sono quelle lanciate da Roberto Colaninno nel 1999 e da Marco Tronchetti Provera sull’allora controllata Tim. Nel mezzo una serie di deboli controlli azionari con quote minime, patti parasociali fragili e investitori puniti.

 

In Europa la situazione non è diversa. Il paese dove le scalate vanno più a beneficio degli azionisti di minoranza sono gli Stati Uniti, che hanno regolato i takeover ma dove il vincolo formale dell’Opa non esiste e la presenza dei fondi e l’obbligo di accordi con le minoranze tendono a evitare che il parco buoi della Borsa si riduca a mangiare l’erba secca. Un caso di Opa totalitaria frustrata è il takeover della nipponica Hitachi su Ansaldo Sts e Breda di Finmeccanica; l’operazione più rilevante degli ultimi anni in Italia, da 2 miliardi. Con la veste di difensore degli azionisti di minoranza, il finanziere americano Paul Singer del fondo Elliott management nei mesi scorsi ha spinto Hitachi a riformulare il prezzo di offerta per la società quotata in Borsa Sts perché giudicato incongruo. Il 6 novembre 2015 Elliott ha inviato al presidente e ad di Hitachi, Hiroaki Nakanishi, una lettera confidenziale chiedendo “il rispetto delle minoranze”. Singer, salito fino al 30 per cento, da azionista attivista ha più probabilmente tentato di guadagnare il massimo dall’incursione, finché ieri Hitachi ha risposto comprando azioni fino a superare il 50 per cento delle quote e assicurandosi così il governo della società. Gli azionisti di Ansaldo Sts, che avevano consentito di cedere le loro quote in sede di offerta, hanno ottenuto la differenza tra il prezzo di Opa (9,68 euro) e quello definito ieri (10,5). Le ambizioni del raider Singer sono indebolite, le minoranze hanno avuto soddisfazione sebbene l’obiettivo dell’Opa totalitaria sia riuscito a metà, per ora.

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