Perché, su Marx e Pericle, Umberto Eco fu anche un cattivo maestro

Luciano Pellicani
In un articolo apparso il 1° marzo sul Corriere della Sera, Paolo Di Stefano ha scritto che, “come accade per i grandi che ci lasciano, si comincia a sentire la mancanza di Umberto Eco”.

In un articolo apparso il 1° marzo sul Corriere della Sera, Paolo Di Stefano ha scritto che, “come accade per i grandi che ci lasciano, si comincia a sentire la mancanza di Umberto Eco”. In realtà, solo la retorica che accompagna, puntualmente e ritualmente, la scomparsa di un uomo pubblico può giustificare questo superlativo giudizio. Tanto più che le idee politiche di Eco altro non erano che tipiche espressioni di quella retorica liberticida battezzata “sinistrese” da Paolo Flores d’Arcais.
Lo erano a tal punto che nel 1976 Eco – in un articolo apparso sul Corriere della Sera – salutò come una grande rivoluzione etico-politica il fatto che “a cento anni e passa dalla sua prima proposta, la visione marxista della società si stava imponendo come un valore acquisito. I suoi valori erano diventati di tutti, come nell’Ottocento erano diventati di tutti gli immortali principi dell’Ottantanove… Quell’insieme di princìpi filosofici e di strategie politiche che andavano sotto il nome di marxismo ormai veniva accettato come un valore diffuso e indiscutibile”. Indiscutibile! Nello stesso anno in cui Eco celebrava quello che Michel Foucault chiamava “marxismo dossologico”, Norberto Bobbio – in un saggio pubblicato sulla rivista del Partito socialista italiano Mondoperaio – dimostrò che non esisteva una teoria marxista della democrazia. Al suo posto, c’erano solo frasi a effetto o inquietanti formule come “la dittatura rivoluzionaria del proletariato”, la quale sarebbe stata esercitata dalla “avanguardia cosciente” – il Partito comunista – che si arrogava il diritto storico di parlare a nome della classe operaia. A rendere ancora più grottesco il compiacimento di Eco per la diffusione del così detto “socialismo scientifico”, c’era un altro imbarazzante vuoto: che negli scritti di Marx non era possibile trovare una teoria dell’economia di piano che avrebbe dovuto sostituire l’odiato capitalismo. E infatti la rivoluzione proletaria mondiale – che, a giudizio di Eco, avrebbe posto le fondamenta assiologiche e istituzionali di una nuova civiltà – si è conclusa con una totale bancarotta planetaria precisamente perché una economia senza mercato è un ossimoro. Detto in altro modo: distruggere il mercato – come ripetevano ossessivamente Marx e Lenin – significa distruggere l’economia. Ma di questa elementare verità, Eco – ottenebrato dall’assunzione di massicce dosi di oppio ideologico – non aveva neanche il sospetto.

 

Un’ulteriore conferma della sconcertante incapacità di Eco di leggere correttamente la realtà politica è la sua introduzione alla nuova edizione del famosissimo romanzo “1984”, nella quale si legge che l’ammonitrice critica di George Orwell riguardava “lo stalinismo e la società di massa”. Nulla di più contrario alla realtà: il messaggio che il socialista Orwell lanciò nel 1948 riguardava intenzionalmente ed esclusivamente il comunismo marxleninista. Quel comunismo che Eco considerava l’avvenire dell’umanità, mentre era la più spietata e rigorosa forma di totalitarismo mai registrata negli annali della storia universale.
Ma anche dopo il collasso catastrofico delle società costruite sui princìpi del marxleninismo, Eco continuò a sentenziare sulla realtà storico-politica. E sempre con gli stessi disastrosi risultati. Basti pensare che, mentre Karl Popper aveva indicato in Pericle il più grande campione della democrazia antica e il più lucido teorico della “società aperta”, Eco – in un articolo apparso qualche anno fa su Repubblica – lo descrisse come un volgare populista, demagogico e in malafede. L’argomento principale al quale Eco fece ricorso per corroborare il suo giudizio demolitorio era che quando Pericle tesseva l’elogio della democrazia, ad Atene c’erano, accanto a 140 mila cittadini, ben 100 mila schiavi. Il che è certamente vero. Ma è anche certamente vero che Marx ci ha insegnato che lo spietato sfruttamento dell’uomo sull’uomo è strettamente dipendente dal basso sviluppo delle forze produttive. E , dopo aver sottolineato che “la schiavitù non si può abolire senza la macchina a vapore e la mule-jenny, né la servitù della gleba senza una agricoltura migliorata”, ci ha anche insegnato che “il presupposto pratico assolutamente necessario dell’emancipazione del lavoro era un grande incremento della produzione, poiché senza di esso si sarebbe generata soltanto la miseria e quindi col bisogno sarebbe ricominciato il conflitto per il necessario e sarebbe ritornata per forza la vecchia merda”. Questa è una delle più importanti verità che dobbiamo al genio sociologico di Marx. Dal quale si evince che rimproverare alla democrazia ateniese di basarsi sulla schiavitù significa fare della facile demagogia. Che fu esattamente ciò che fece Eco, dimentico della lezione di Marx, di cui peraltro sempre si era detto discepolo. Inoltre, Eco nascose ai suoi lettori che, ad Atene, le condizioni degli schiavi – oltre a essere infinitamente migliori di quelle degli iloti nella società spartana – erano tali che minima era la distanza che li separava, sia dal punto di vista materiale che dal punto di vista morale, dai liberi cittadini. Lo constatò, indignato, l’arcireazionario Anonimo Ateniese così esprimendosi: “Ad Atene la sfrontatezza degli schiavi e dei meteci è enorme: non è neanche consentito batterli, né chi è schiavo ti cederà il passo per la strada. Ti spiego perché questo sia tipico di Atene. Se la legge consentisse ai liberi di picchiare gli schiavi, o i meteci o i liberti, spesso si finirebbe col picchiare un Ateniese – uno libero – scambiandolo per uno schiavo. Giacché il popolo non è per niente vestito meglio degli schiavi e dei meteci, e in nulla il suo aspetto è migliore . E se nessuno si stupisce ancora del livello di vita consentito in Atene agli schiavi – alcuni dei quali vivono addirittura nel lusso – si può dimostrare anche che questo avviene a ragion veduta. Dove, infatti, c’è potenza navale, è inevitabile essere schiavi degli schiavi per una ragione economica: per poter riscuotere quello che mi aspetta sulle attività del mio schiavo. Insomma, è inevitabile lasciarli praticamente liberi. Dove gli schiavi sono liberi, non è necessario che il mio schiavo abbia paura di te”.

 

[**Video_box_2**]E non è tutto. Eco – con una sbalorditiva disinvoltura – nascose ai suoi lettori che, ad Atene , la libertà di parola – la parrhesia – fu rivendicata e ottenuta persino dagli schiavi. E nascose anche un fatto di enorme importanza: che Pericle, aprendo le porte di Atene ai filosofi che operavano nelle poleis della diaspora greca, fu il principale artefice di quella rivoluzione culturale che sarebbe sfociata nella formazione della prima Città secolare della storia. La cosa non sfuggì all’acutissimo sguardo di Benjamin Constant, che elogiò l’Atene di Pericle a motivo del fatto che essa fu l’unica città del mondo antico che ospitò nel suo seno la “libertà dei moderni”. Quella libertà che – attraverso un’infinita teoria di conflitti d’interessi e di valori – è rinata nel mondo occidentale. Tant’è che Thomas Paine, uno dei più grandi ed energici difensori della democrazia liberale, sintetizzò il significato della Rivoluzione americana con la formula: “L’America sarà in grande ciò che era stata Atene in piccolo”. L’Atene di Pericle, naturalmente.

 

Luciano Pellicani è autore per Rubbettino del saggio “L’Occidente e i suoi nemici”

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