Filantropia all'italiana

Marco Valerio Lo Prete
Il nostro paese ancora aspetta  il suo Zuckerberg, donatore con profitto. Numeri, tic e greppie

Roma. Uno stato sociale che per decenni ha vestito i panni della balia onnipotente, una imprenditoria largamente riluttante e infine svariati impedimenti burocratico-fiscali. Ecco i fattori principali che per decenni hanno ampliato la distanza tra l’Italia (e l’Europa continentale tutta) da una parte, e l’America dall’altra, in materia di filantropia. Il caso di Mark Zuckerberg, il 31enne fondatore di Facebook che si è impegnato a donare nel tempo il 99 per cento della sua partecipazione azionaria nel gruppo (per un valore di 45 miliardi di dollari), spinge a nuove riflessioni sul tema.

 

Stefano Zamagni, economista all’Università di Bologna e alla Johns Hopkins, ha ricordato su queste colonne come in America viga “il principio della restituzione”. Da Andrew Carnegie all’inizio del ’900 fino ai ragazzi della Silicon Valley di oggi, tradizione vuole che l’impresa abbia “un obbligo sociale, non giuridico, di restituire alla società utili e profitti accumulati grazie alla società stessa”. Da qui l’elevatissimo tasso di filantropia americano. Nell’Europa continentale si è invece imposto per decenni “il principio della redistribuzione”: allo stato è appaltato il ruolo di principale redistributore della ricchezza. Il cittadino, imprenditore o semplice che sia, è mediamente tassato molto più che in America, e la sua coscienza filantropica viene naturaliter sopita dallo stato, con una mano esattore e con l’altra balia. Secondo Zamagni, però, la conclamata crisi fiscale dei nostri stati, unita a macroscopiche inefficienze della burocrazia pubblica, ha innescato un potenziale cambiamento. Una virata in direzione americana, per semplificare. I dati sulla filantropia in Italia, invece, ci ricordano che c’è ancora un oceano di mezzo tra noi e l’America di Zuckerberg.

 

La beneficenza negli Stati Uniti non riguarda solo i ricchi ma è una pratica diffusa tra la popolazione: nove cittadini su dieci offrono tempo e/o denaro ad almeno un ente caritatevole e le donazioni individuali ammontano in un anno a 300 miliardi di dollari, secondo i calcoli degli studiosi John List e Uri Gneezy pubblicati nel saggio “The Why Axis”. Una somma superiore al pil della Grecia, che non comprende le donazioni delle corporate foundation e delle fondazioni famigliari e private. Il totale dei soldi in beneficenza, scriveva il Foglio sui dati di List e Gneezy, superano il 2 per cento del pil americano e sono raddoppiate dal 1990, mentre hanno avuto un tasso di crescita doppio rispetto a quello dell’indice azionario S&P 500, rappresentativo delle principali società americane. La filantropia organizzata è uno dei settori economici più rilevanti del paese. Le 86.192 fondazioni – secondo i calcoli dell’italiana Fondazione Golinelli – gestiscono un patrimonio complessivo di 793 miliardi di dollari e ne erogano 55 miliardi all’anno. Nell’Unione europea a 28 paesi, con un numero di abitanti superiore di oltre 200 milioni di unità rispetto agli Stati Uniti, 129.000 fondazioni hanno un patrimonio in gestione di 430 miliardi di euro e uscite complessive annue di 53 miliardi di euro. L’Italia ha 6.220 fondazioni tra bancarie, aziendali, famigliari, private che gestiscono un patrimonio di 80 miliardi circa (85 nel 2005), secondo i calcoli di Gian Paolo Barbetta (“Le fondazioni”, Il Mulino, 2013). Le fondazioni bancarie hanno un patrimonio di 40 miliardi circa, la restante metà le altre. Nel 2011 le uscite complessive registrate delle fondazioni italiane ammontavano a 9,9 miliardi di euro – dallo spaccato delle voci del nono censimento Istat sulle istituzioni non profit si desume non siano compresi nella cifra gli aumenti di capitale sostenuti dalle fondazioni bancarie a favore delle banche conferitarie – in calo del 15,4 per cento rispetto agli 11,5 miliardi del 2005. Le uscite comprendono oneri di gestione (8 per cento), erogazione a terzi (15), dipendenti e collaboratori (34), acquisto di beni e servizi (37), oneri tributari (2). Se invece si includono tutti gli enti non profit, che devono reinvestire gli eventuali profitti in ulteriori attività di interesse collettivo e che comprendono fondazioni, associazioni caritatevoli, comitati cittadini, cooperative sociali, eccetera, l’ammontare delle erogazioni sale a 57,3 miliardi di euro nel 2011, sempre secondo il censimento Istat. Le attività comprendono assistenza sociale, filantropia e volontariato, sanità, cultura e sport, istruzione e ricerca. Fa notare il direttore generale della Fondazione Golinelli, Antonio Danieli: “La spesa pubblica per l’istruzione ammonta in Italia a 66 miliardi, 49 dei quali vanno in stipendi del personale pubblico. La spesa ‘effettiva’ è di 3 miliardi. Solo il doppio della spesa in ‘istruzione’ delle fondazioni, pari a 1,2 miliardi nel 2011”. Ma perché la filantropia non è così sviluppata e produttiva come negli Stati Uniti? Per Marino Golinelli, fondatore dell’omonima fondazione, il baco è innanzitutto culturale. “Io a 22 anni ho iniziato con quella che oggi chiamerebbero una start-up nel settore farmaceutico”, dice al Foglio. Nel 1988 Golinelli ha dato poi vita all’omonima fondazione che oggi, all’età di 95 anni, contribuisce ancora a guidare da presidente, concentrandosi su scuola e scienze con quello che definisce “un approccio hands-on: il sapere acquisito attraverso la sperimentazione diretta e il saper fare”. Cosa pensa dell’atteggiamento dei suoi colleghi? “Gli imprenditori italiani sono mediamente bravissimi nel loro mestiere, ma solo uno su dieci tra loro dimostra di avere senso della responsabilità sociale. Preferiscono parlare in pubblico di ‘lavoro da dare ai giovani’, invece con la filantropia possiamo effettivamente creare occasioni di lavoro per i giovani di domani. Mi auguro che tra gli imprenditori cresca una sensibilità fattiva in questo senso”.

 

[**Video_box_2**]Da notare che nel paese con la pressione contributiva più alta d’Europa, nemmeno chi ambisce a fare beneficenza è esente da tasse. Le fondazioni private per esempio non possono scaricare l’Iva come un normale cittadino e dunque essa rappresenta un costo; pagano l’Irap come fossero un’impresa, il che limita la possibilità di assumere personale. Se l’Iva fosse scaricabile si avrebbe un risparmio di 500-700 milioni l’anno (stime Fondazione Golinelli) sui 3,6 miliardi spesi in acquisto di beni e servizi. Per le donazioni alle onlus sono previsti schemi di detassazione, per quelle alle fondazioni non ci sono sollievi particolari. Non c’è margine per proteggersi dal vampirismo fiscale nemmeno per chi intende donare, magari con giusto profitto.

Di più su questi argomenti: