Liberalizzazioni di nuova generazione

Carlo Alberto Carnevale Maffé
L’orizzonte internazionale si è fatto più cupo. Liberare settori e mercati è una valida difesa. Il ddl Concorrenza basta? Cos’altro serve? Girotondo di idee

Serve un legislatore illuminato che non faccia politica industriale con tasse e soldi pubblici ma con l’uso di leggi mirate a creare nuovi mercati: ope legis, sine pecunia. Di questo approccio al momento non c’è traccia nel ddl concorrenza. Il nostro paese ha disperato bisogno di generare e attrarre investimenti: a fronte di una enorme massa di risparmio finanziario senza rendite nominali significative, il basso livello di investimenti fissi, specie in tecnologie e intangibles, affossa il pil corrente e potenziale. Che fare? Lo stato controlla direttamente o indirettamente il più grande mercato esistente: “Big G”, spesa pubblica e welfare. Sezionando una fetta di spesa pubblica attualmente segregata nei silos organizzativi della Pa è possibile generare nuovi mercati nei servizi attirando investitori.

 

Alcuni esempi: se la Pa societarizzasse e poi mettesse sul mercato la gestione – non necessariamente la proprietà – di alcuni processi oggi inefficientemente gestiti internamente, i servizi di back office di amministrazioni, scuole e ospedali, il trasporto pubblico urbano, in generale quasi tutto il personale di staff delle utilities locali, che oggi impiegano molta forza lavoro sottoutilizzata, attori di mercato potrebbero concorrere alla gara di gestione, potendo contare sui flussi di cassa derivanti da contratti di medio-lungo termine per fare investimenti di ammodernamento dei processi e tecnologie, di formazione e aumento della produttività del lavoro. Invece di comprare fattori di input di breve termine (es. telefoni e computer per gli impiegati) lo stato deve mettere sul mercato outcomes con orizzonti di medio-lungo termine (es. sistemi di smart working in cloud). Poi queste società a gestione esternalizzata, che se opportuno possono temporaneamente rimanere di proprietà pubblica pur operando con contrattualistica privata e magari con opzioni di acquisto a fine periodo, potrà fornire servizi, nel rispetto dei vincoli sul sussidio incrociato, anche sul mercato aperto. Invece di creare della nuove società in-house, quindi, si tratta di puntare alla logica del “business process outsourcing”, mettendo sul mercato quote di servizi oggi internalizzati dai silos organizzativi dello stato. Con diversi modelli di gestione si ridurrebbe l’assenteismo, aumenterebbe la produttività e si creerebbero spazi di efficienza e di profitto, consentendo di riportare in Italia funzioni di servizio che sono state progressivamente delocalizzate in paesi a minore costo del lavoro. Ciò richiede una visione di lungo periodo e grande lucidità. Significa mettere sul mercato asset normalmente illiquidi o non scambiati, e farli fruttare. E’ il concetto alla base della sharing economy. Hai una macchina, normalmente sottoutilizzate per oltre il 90 per cento del tempo? Con un marketplace e il tuo lavoro ne saturi l’utilizzo, trasformandola in uno strumento di guadagno. Hai una casa? Partecipando al markeplace tramite una app e pochi investimenti, immetti sul mercato una risorsa che altrimenti sarebbe stata sottoutilizzata. Questo vale anche per asset intangibili o finanziari, come i flussi di cassa per i servizi o l’acquisto di beni intermedi da parte dello stato. Lo stato ha un flusso di cassa vincolato a un particolare acquisto o trasferimento di reddito? Perché non incanalarlo, trasformandolo in un asset finanziario negoziabile sul mercato? Esempio: parte delle future pensioni, almeno per la quota di natura retributiva, non vengono erogate in contante ma tramite voucher digitali tracciabili. Quei voucher, possibilmente strutturati sotto forma di blockchain – un sistema di verifica collettiva alla base delle transazioni in bitcoin – per renderli liquidi e sicuri, possono essere spesi solo presso esercizi gli convenzionati con l’emittente che avranno partecipato a una gara per offrire prezzi e condizioni di servizio vantaggiose rispetto a quelle di mercato. Il principio è simile alla nuova normativa per i buoni pasto digitali. Se la massa di persone titolari dei voucher digitali viene aggregata, anche da attori terzi indipendenti, si generano grandi economie di scala e di densità, aumentando il potere di acquisto reale delle pensioni pur a parità di valore nominale. Gli effetti positivi sono ben noti: viene reso impossibile il nero, si genera un flusso aggiuntivo di Iva, si attivano investimenti privati e in ultima analisi si rende il welfare più sostenibile. Bisogna creare le condizioni per farlo – sarebbero liberalizzazioni del nostro secolo, con annessa revisione della spesa – invece di inseguire ricette di semplice devolution d’antan.
 

 

Carlo Alberto Carnevale Maffé, professore all’Università Bocconi di Milano

 

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