Andare a lavorare

Giuliano Cazzola
Nella legge di Stabilità manca una parola chiave per risolvere il falso problema degli esodati

Dopo il contrordine di Palazzo Chigi il disegno di legge di stabilità non si è occupato dunque del pensionamento flessibile. Quel poco di flessibilità che “passa il convento” si limita a rinverdire, rafforzandone la possibile effettività, soluzioni più volte annunciate (come il part time volontario per i lavoratori ultra 63enni a cui viene assicurata la piena copertura previdenziale) o rimaste incagliate da incertezze interpretative (come l’opzione-donna). Purtroppo, ci scapperà la settima salvaguardia per gli “esodati”, con altri 24 mila casi, a fronte dei 50 mila rivendicati dai sindacati (un numero coincidente con quello delle domande respinte dall’Inps per insussistenza dei requisiti). Osservando i requisiti di ammissione all’ulteriore salvaguardia avremmo preferito che Renzi affrontasse tale questione nel solo modo adeguato dopo ben sei interventi di tutela (dalla cui attuazione è emerso quanto fossero esagerati i numeri): con un bel “andate a lavorare”, cioè, visto che è inaccettabile perpetuare l’andazzo secondo il quale quanti perdono il lavoro tra i 50 e i 60 anni, devono per forza approdare ad un trattamento pensionistico, nonostante che gli andamenti demografici pongano con forza la necessità di politiche di invecchiamento attivo. Come sostiene da sempre tutta la letteratura previdenziale, restare più a lungo al lavoro non è solo la condizione principale per avere trattamenti più adeguati, ma anche per rispondere a precise esigenze del mercato del lavoro in una società nella quale si è invertito il rapporto tra giovani ed anziani. Almeno, però, queste misure “ancien régime” serviranno – speriamo – a saldare i conti col passato; la flessibilità in uscita avrebbe, invece, manomesso un punto-chiave della riforma del 2011 in un settore – come quello delle pensioni – sorvegliato a vista dalle istituzioni internazionali.

 

Ma davvero la nuova disciplina previdenziale è una gabbia in cui resteranno imprigionati i lavoratori e le lavoratrici, impossibilitati ad andare in quiescenza se non ad età venerande? Davvero la riforma Fornero deve essere cambiata ad ogni costo? E’ questa una convinzione diffusa che viene ripetuta, come tutti i luoghi comuni, senza alcuna verifica e, sovente, a suon di insulti e contumelie. In realtà, la riforma Monti-Fornero si è limitata a riordinare normative ereditate dai governi precedenti. Elsa Fornero si limitò a proseguire nella linea del rigore e ad anticipare di qualche anno talune “andate a regime” e, soprattutto, a “fare la mossa” dell’estensione pro rata del calcolo contributivo. Del resto, l’avvio della parificazione dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici rispetto a quella dei lavoratori (attuata a marce forzate nel pubblico impiego su impulso sanzionatorio della Ue) è dovuto a Giulio Tremonti e a Maurizio Sacconi. Non solo. Nel requisito anagrafico di vecchiaia ora vigente (in transito verso i 67 anni nel 2018) sono inclusi sia i 12 mesi (18 per gli autonomi) della c.d. finestra mobile, sia gli incrementi derivanti dall’aggancio automatico all’attesa di vita: misure importanti adottate, appunto, dal governo di centro destra e soltanto confermate nel 2011. Le medesime considerazioni valgono per la pensione anticipata. Nel requisito contributivo, vigente nel 2015, di 42 anni e 6 mesi (per i lavoratori dipendenti pubblici e privati e gli autonomi) e di 41 anni e 6 mesi (per le lavoratrici di tutti i settori) sono ugualmente assorbite le “finestre mobili” ed inclusi gli effetti della dinamica demografica. Tutto ciò a prescindere dall’età anagrafica. La soglia dei 62 anni (praticamente “in sonno” fino al 2017) serve solo a definire l’ambito di una possibile penalizzazione sull’assegno di chi va in quiescenza anticipata ad un’età inferiore. E’ sufficiente fare un paio di conti per capire che si tratta di un taglio molto più modesto di quelli proposti dai sostenitori della flessibilità in uscita. Scorrendo, poi, il Rapporto 2015 del Mef sulle “Tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario’, si scoprirà che l’insieme degli interventi di riforma, dal 2004 (Maroni) in poi hanno prodotto una riduzione dell’incidenza della spesa pensionistica sul pil pari a 60 punti percentuali cumulati a tutto il 2060. Di tale ammontare, i due terzi dipendono dalle misure adottate prima della riforma Fornero.

 

[**Video_box_2**]Vogliamo, infine, toglierci lo sfizio di esaminare i dati dell’età media del pensionamento ovvero di quando le persone in carne ed ossa sono andate effettivamente in pensione? Osservando, nelle principali gestioni private dell’Inps, la sequenza dal 2009 ai primi due mesi del 2015, le nuove regole hanno determinato un incremento importante dell’età media di vecchiaia (di 3,3 anni, da 62,5 a 65,8, in conseguenza, soprattutto, dell’unificazione dei requisiti anagrafici di genere con l’aggiunta dell’aggancio automatico all’attesa di vita), mentre hanno interessato di un solo anno (da 59 a 60) l’età del pensionamento anticipato, che in prevalenza viene utilizzato dagli uomini, i quali sono, in generale, in grado di far valere il requisito contributivo (ora intorno a 42 anni) ad un’età di circa 60 anni. Nel complesso, l’età media alla decorrenza – per il mix vecchiaia e anzianità – cresce solo di 7 mesi, da 61,2 a 61,9. In sostanza, il ricorso al pensionamento anticipato è diminuito nei numeri (salvo ripartire in grande stile nel 2015), ma non subisce una sostanziale elevazione del requisito anagrafico che rimane più o meno al livello precedente le riforme più recenti. Nel 2010, l’età media di coloro che percepirono il trattamento di anzianità era pari a 58,3 anni se dipendenti, a 59,1 anni se autonomi. Ben poco di nuovo sotto il sole. Tranne la solita litania per cui la grande maggioranza dei pensionati vive con meno di mille euro mensili. Basterebbe ricordare che quella cifra si riferisce non a persone ma a trattamenti; che i pensionati solo 16,5 milioni mentre le pensioni sono 23 milioni; che il reddito medio dei pensionati è superiore all’importo medio delle pensioni, dal momento che vi sono milioni di assegni che vengono redistribuiti sulla medesima platea; che nelle medie sono inclusi anche i trattamenti di invalidità e di reversibilità che, per definizione, sono di importo inferiore a quelli diretti di vecchiaia ed anzianità.

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