Angela Merkel con Matteo Renzi (foto LaPresse)

L'egemone con l'affanno

Marco Valerio Lo Prete
Renzi e l’idea del “sorpasso” su Berlino. Dietro lo storytelling c’è una parabola da inquadrare. Tra Merkel alle prese con i rifugiati, leadership fatigue dei tedeschi, investimenti frenati dall’eurocrisi e congiuntura astrale della domanda

Roma. “Se l’Italia fa quel che deve fare, è più forte di tutti, anche della Germania. Penso che l’Italia tra dieci anni possa essere il paese leader in Europa, anche più della Germania”, ha detto Matteo Renzi esattamente un mese fa, intervenendo a New York. Miracoli dello storytelling, avranno pensato in molti. Tuttavia, un po’ per scommessa un po’ per casualità, quell’uscita del presidente del Consiglio italiano conteneva almeno un’intuizione sull’attuale parabola tedesca. Quella che, secondo alcuni analisti, porterà l’egemone riluttante del nostro continente a restare egemone sì, ma con l’affanno. “La fine dell’èra Merkel è all’orizzonte”, ha scritto infatti lunedì sul Financial Times il brillante Gideon Rachman. “La fine dell’egemonia tedesca”, lo aveva anticipato di pochi giorni l’economista tedesco Daniel Gros. Cosa succede a Berlino, dunque?

 

Rachman mette in prosa, per i lettori della City, il dibattito che da settimane monopolizza il discorso pubblico tedesco. “La crisi dei rifugiati che si è riversata sulla Germania – scrive – probabilmente scandirà la fine dell’èra Merkel”. Tutto ciò potrebbe essere “profondamente ingiusto”, perché in fondo l’apertura delle frontiere ai rifugiati siriani è da giudicare “coraggiosa e compassionevole”, ma “il guaio è che il governo Merkel ha chiaramente perso il controllo della situazione”. Almeno per ora. E ciò basta a far crollare i consensi dei cittadini, a ringalluzzire gli avversari politici interni al fronte conservatore, e a far aumentare le chance di dimissioni anticipate della cancelliera che è al potere dal 2005. Né la crisi dei rifugiati si materializza nel vuoto: infatti dalla crisi siriana a quella ucraina, passando a quella dell’euro, sono ormai molteplici e ravvicinati nel tempo i fronti sui quali Berlino sente di essere costretta all’azione solitaria in Europa. Azione non sempre coronata da successo. Rachman non lo dice, ma è qui che nasce la “leadership fatigue” che si registra nell’establishment del paese.

 

Gli analisti scandagliano anche la congiuntura economica in cerca di eventuali crepe. L’aneddotica non manca. Viene alla mente il sorpasso appena avvenuto di Toyota ai danni di Volkswagen (Vw), per esempio. La Casa di Wolfsburg nel primo trimestre del 2015 era diventata la prima del pianeta per numero di auto vendute; lunedì però la società giapponese ha certificato la vendita di 7,52 milioni di vetture da gennaio a settembre, scavalcando di nuovo le 7,43 milioni di Volkswagen. E questi sono i dati pre diesel-gate, figurarsi il resto dell’anno. Poi ci sono le difficoltà di Deutsche Bank, l’istituto che aveva tentato di gareggiare nella tana dei lupi americani dell’investment banking, uscendone ammaccato. Ma nessuno può davvero prevedere il futuro di Vw in mancanza di dati consolidati post truffa. Meglio stare ai fondamentali. Che a Daniel Gros, direttore tedesco del Center for european policy studies di Bruxelles, bastano comunque per delineare “la fine dell’egemonia tedesca”. “Dal punto di vista del soft-power – ha scritto su Project Syndicate – il mero fatto che le persone ritengono che la Germania sia forte contribuisce a puntellare lo status del paese e la sua posizione strategica. Ma non passerà troppo tempo prima che le stesse persone inizieranno a notare che il fattore determinante di quella percezione – cioè il fatto che l’economia tedesca ha continuato a crescere mentre la maggior parte delle altre economie dell’Eurozona attraversava una recessione prolungata – rappresenta una circostanza eccezionale, che presto sparirà”. Il Fondo monetario internazionale ha appena scritto che nella prima metà del 2015 “la crescita più forte delle attese dell’Italia, e specialmente dell’Irlanda e della Spagna, ha compensato la crescita più debole del previsto in Germania”. Locomotiva, chi? In 12 degli ultimi 20 anni, Berlino è cresciuta meno della media di Italia, Francia e Spagna – osserva Gros – ed entro cinque anni tornerà a fare peggio di quella media. La piena occupazione e la crescita lenta fanno presagire “un incremento molto lento della produttività”. Non solo: con i tassi d’interesse azzerati, i grandi risparmi tedeschi fruttano poco o nulla; e nella rinnovata calma finanziaria non appaiono nemmeno più decisivi come potenziale arsenale per i salvataggi altrui. Piuttosto, nota Gros, oggi è la Germania che sulla crisi dei rifugiati deve invocare la solidarietà degli altri paesi europei. E incrociare le dita perché “lo sviluppo dei paesi emergenti sta rallentando notevolmente, anche in Cina, lì dove la domanda si sta spostando dagli investimenti ai consumi. Ciò può minare la crescita tedesca e apportare beneficio ai paesi dell’Europa meridionale che esportano più beni di consumo”, conclude Gros. Proprio l’outlook dei paesi emergenti è uno dei fattori più aleatori che incombono su tutte le previsioni degli economisti tedeschi, incluse quelle autunnali pubblicate congiuntamente dai principali think tank del paese (Diw, Iwh, Ifo e Rwi): “Le esportazioni saranno influenzate da due forze opposte: la ripresa nel resto dell’Eurozona da una parte, i tassi di crescita moderati delle economie emergenti, Cina in particolare, dall’altra”. La frenata asiatica avrà un impatto così forte sulla Germania che il pensatoio italiano Prometeia vede realizzarsi già nel 2016 l’aggancio del tasso di crescita italiano (più 1,2 per cento) a quello tedesco.

 

[**Video_box_2**]Simon Junker, uno degli analisti che hanno lavorato a quel rapporto congiunto dei think tank che ogni anno viene discusso al ministero delle Finanze di Wolfgang Schäuble, ci riceve nella sede berlinese del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung e stempera qualche entusiasmo eccessivo da parte italiana. Intanto perché, nelle sue previsioni, il pil tedesco aumenterà dell’1,8 per cento sia quest’anno sia il prossimo. Poi perché la Germania, dal 2008 a oggi, ha attraversato una grave recessione soltanto nel 2009 (quando il pil calò di 5,6 punti), mentre il pil dell’Italia ha perso terreno nel 2008 (meno 1 per cento), nel 2009 (meno 5,5), nel 2012 (meno 2,8), nel 2013 (meno 1,7) e nel 2014 (meno 0,4). Come dire che abbiamo molto da recuperare. Junker però ammette che l’ottimismo sulla ripresa dei consumi domestici tedeschi potrebbe essere in parte falsato: “Sovrastimato in ragione di alcuni fattori irripetibili. Come l’abbassamento del prezzo del petrolio che accresce il potere d’acquisto e che poi si affievolirà. Poi alcuni effetti della riforma delle pensioni che anticipa e rimpingua gli assegni per il 2015. Quindi la crescita dei salari che è stata forte dopo l’inizio della crisi, ma sta già rallentando. Infine, nel 2015 e nel 2016, l’afflusso straordinario di rifugiati, con le annesse uscite inattese per lo stato, sosterrà la domanda interna”. Fattori irripetibili, dunque. Controbilanciati da due scenari foschi che il Diw non omette mai di citare: “Il tasso di crescita potenziale tedesco sarà limitato dall’autunno demografico del paese – conclude Junker – E gli investimenti dei nostri imprenditori, più che dall’instabilità dei paesi emergenti, sono già oggi frenati dalle incertezze istituzionali sul futuro della moneta unica”. Ancora l’euro, dunque, a creare scompiglio. Specie se la Merkel tra qualche mese non dovesse più apparire così irremovibile, in affanno per le troppe crisi arrivate tutte assieme. Affiancata magari da un Renzi in versione stabilizzatore.     

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