Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Aspetta e spesa

Renzi alla sfida più ardua: infilare i tagli alla spesa nel suo “storytelling”

Marco Valerio Lo Prete
Il rigore necessario per ridurre le tasse vs. i pregiudizi mainstream anti rigore. Inferno fiscale, clausole e diritti acquisiti. I precedenti su articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e "sprechi"

Roma. “La prima misura economica da adottare? Cambiare lo storytelling dell’Italia”, aveva detto Matteo Renzi nell’estate 2014 al Festival dell’economia di Trento. “Se non incidiamo anche sulla narrazione non possiamo farcela”. D’accordissimo con lui, come ovvio, Yoram Gutgeld, principe dei consiglieri economici di Palazzo Chigi che ha care le tesi del premio Nobel Daniel Kahneman, con l’idea che la psicologia e un quid irrazionale spieghino molto dell’atteggiamento dei consumatori nelle società industriali. Lecito ironizzare sull’approccio, tuttavia è indubbio che per scalfire potentemente un totem come l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – per esempio – lo storytelling in questione un ruolo l’abbia avuto eccome. Ha popolarizzato una tesi – quella dell’ingiustizia e della disfunzionalità di un mercato del lavoro diviso tra outsider e insider – che finora era appannaggio di sparuti riformatori.

 

Adesso però che anche il fattore “C” è dispiegato a favore di governo – tra politica monetaria europea espansiva, deprezzamento dell’euro e petrolio a buon mercato – è stato sufficiente un dato così-così sulla disoccupazione per ricordare a tutti che con questi ritmi di crescita (più 0,7 per cento a fine anno, per l’esecutivo) non si riassorbe il numero dei senza lavoro. L’Istat poi ha fatto sapere che la pressione fiscale e la spesa pubblica, alla fine del 2014, hanno raggiunto livelli record: la prima, l’anno scorso, ha pesato quanto il 45,3 per cento del pil; mentre il totale delle uscite correnti (al netto degli interessi) è stato pari a 692,3 miliardi (erano 684 l’anno prima). Il governo si schermisce, dice che gli 80 euro in busta paga per i redditi più bassi ai fini contabili sono una “spesa”.

 

Ma in fondo anche a Palazzo Chigi s’avanza la convinzione che senza limare la spesa pubblica, dati i vincoli di bilancio dettati da Bruxelles e Lady Spread, sarà difficile guadagnarsi lo spazio per ulteriori sgravi fiscali pro crescita. Solo che in Italia i tagli alla spesa pubblica sono bollati per antonomasia come “selvaggi” o “inutili”, così perfino al premier e ai suoi risulta difficile inserirli in uno storytelling ammaliante e dunque efficace. Non che Renzi non ci abbia mai pensato prima; al tempo delle primarie, nella sua “narrazione”, figurava molta lotta agli “sprechi”, poi declinata nel taglio delle auto blu e dei parlamentari. Più di recente, dal governo hanno fatto sapere di non voler annacquare la riforma Fornero delle pensioni. Ora a Palazzo Chigi, per parafrasare Manzoni, s’interrogano su come passare dal “senso comune” al “buon senso”. Dai tagli agli sprechi a quelli della spesa pubblica tout court. Altrimenti dal 2016, per esempio, scatteranno salate clausole di salvaguardia (nuove tasse).

 

Il bocconiano Roberto Perotti, per aggiungere le sue forbici a quelle di Gutgeld, si prenderà un anno sabbatico. Lavorando su sussidi ai trasporti e agevolazioni fiscali varie, sarà preciso e metodico come sempre è stato. Ma da qui a saper narrare l’utilità del bisturi, magari applicato ai cosiddetti “diritti acquisiti”, ce ne passa.