Foto ANSA
magazine
La lezione di Omnibus, anche per l'oggi
È interamente online sul sito della Biblioteca Gino Bianco la rivista fondata da Leo Longanesi, nata sotto il fascismo e dal fascismo soppressa. Scuola d’anticonformismo e libertà
E’ costata duemila euro. Ma vale un tesoro. L’intera collezione della rivista Omnibus – fondata da Leo Longanesi nel 1937 e chiusa dal regime fascista all’inizio del 1939 – è interamente online, sul sito della Biblioteca Gino Bianco. La si sfoglia strabuzzando gli occhi, con ammirazione. Popolare, sofisticata, elegante, moderna, bellissima. Omnibus ha inventato il rotocalco italiano. Matrice de Il Mondo di Mario Pannunzio e l’Espresso di Arrigo Benedetti, ossia il meglio del giornalismo italiano del dopoguerra. Ma è stata anche una strepitosa scuola di anticonformismo, una palestra di ironia, un antidoto al fanatismo, nella quale si è allenata una generazione di scrittori e intellettuali strepitosi, da Vitaliano Brancati a Mario Praz. Quante volte ne avevo sentito parlare. Come chiunque abbia annusato la storia delle riviste italiane. Ma averla sotto gli occhi, anche in formato digitale, con le pagine ingiallite dal tempo sullo schermo dello smartphone, è tutta un’altra cosa – è un’avventura, un’esperienza estetica, una collisione tra passato e presente, il secolo breve e il secolo della brevità, carta e pixel, con la sensazione di un tesoro del Novecento dissepolto e ora a disposizione della curiosità, dell’estro, della fantasia di ciascuno. Non per fare solo memoria, tenerlo dietro il vetro di un museo, come un reperto, ma per farlo rivivere qui e ora.
L’intera collezione della rivista Omnibus – fondata da Leo Longanesi nel 1937 e chiusa dal regime fascista all’inizio del 1939 – è interamente online, sul sito della Biblioteca Gino Bianco. La si sfoglia strabuzzando gli occhi, con ammirazione
Racconta Gianni Saporetti, membro del consiglio d’amministrazione della biblioteca Gino Bianco, che quando hanno trovato in vendita tutt’e novantasei i numeri di Omnibus, dopo anni di ricerche e di attese, si sono guardati negli occhi e si sono detti: “Ma quando ci ricapita?”. Hanno fatto un po’ i conti. Capito che non avevano un soldo in cassa. Deciso di attingere alle risorse personali lanciando una colletta. “Sarebbe stato sciocco perdere un’occasione come questa”. Nel loro archivio digitale c’è un patrimonio di riviste notevole. Da Tempo presente di Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone a Politics di Dwight MacDonald. Per lo più, gioielli del campo culturale della sinistra libertaria, anarchica, liberale. Da questo punto di vista, Omnibus è un tassello eccentrico del puzzle. Rivista nata e soppressa all’interno del regime fascista. E’ stata considerata da Giovanni Spadolini l’incubatrice di un “antifascismo discreto”, la cosiddetta fronda. Altri gli hanno riconosciuto una doppia natura, fedele al regime fuori, dissidente dentro. Per finire allo storico Ivano Granata – autore di L’Omnibus di Leo Longanesi – che la ritiene dissonante rispetto alla dittatura ma comunque funzionale a essa. In ogni caso, tutti la ammirano, a destra e a sinistra, da Indro Montanelli a Eugenio Scalfari. “Per noi”, dice Saporetti, “l’essenziale era metterla a disposizione di tutti”.
Ma Omnibus è impossibile da leggere, oggi, se non si ha in mente un verso del poeta israeliano Yehuda Amichai che dice: “Dove siamo integerrimi non cresce nessun fiore”. In giro c’è gente che legge, scrive e pubblica libri per mestiere che si rifiuta di stare nello stesso posto di altra gente che ne legge, scrive e pubblica altri. Com’è successo a “Più libri più liberi” con Zerocalcare che lascia la fiera di Roma per la presenza di una casa editrice “neo-nazista”. Trionfa la cultura intesa come culto, rito di appartenenza, identità, fazione, tribù, setta, la cultura dei testi sacri e dei testi sacrileghi. Per leggere Omnibus bisogna invece lasciare fuori dalla porta le fantasie di purezza, il comodo riparo del partito preso, non c’è il bianco e il nero, il bene e il male, c’è la figura mitica e inconfondibile di Leo Longanesi, uno che ha scritto “il vademecum del perfetto fascista” e che in seguito ha allevato – secondo Nello Ajello, non certo un intellettuale sospettabile di nostalgie – “gli elementi migliori della giovane leva antifascista”.
A regime caduto, Longanesi scriveva provocatoriamente di desiderare il ritorno del fascismo. “Perché soltanto sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia”. Mentre, quando al potere era Mussolini, un’informativa della polizia raccontava che il “superafascismo rivoluzionario” di Longanesi si stava trasformando “in una specie di antifascismo letterario e intellettualistico”. Era il suo modo di maneggiare il posizionamento culturale. Inguaribile bastian contrario. “Oggi nel mondo delle idee”, scrive, “c’è un solo modo di agire: pensare contro. Essere favorevoli a qualcosa o a qualcuno è già un modo per rinunciare alla propria libertà”.
Omnibus fu il coronamento di un sogno. L’apice della sua carriera editoriale. Un progetto inseguito per anni. Con tenacia e determinazione, con alti e bassi. Il primo numero arrivò in edicola il 28 marzo 1937, con la data del 3 aprile. Era una domenica. Il giornale costava una lira, vendette quarantamila copie. I successivi numeri uscirono di sabato e arrivarono a vendere anche sessantamila copie. Un gran successo. Che ebbe alle spalle una gestazione faticosa. Longanesi aveva parlato del progetto Omnibus già all’inizio degli anni Trenta con Mussolini e l’editore Rizzoli. Lo realizzò solo sette anni dopo. Quando, alle otto di mattina di una giornata di fine gennaio del 1937, il Duce convoca Longanesi nel suo ufficio e gli comunica che sarà direttore. “E il titolo?” gli domanda, “cosa mi dici del titolo?”. “Omnibus”, risponde Longanesi. “Omnibus? Sembra il nome di un tramvai”.
Diventerà, invece, sinonimo di un’informazione capace di tenere insieme la politica estera e il costume, il reportage letterario e la satira, la critica teatrale e cinematografica, una rivista capace d’inventare un modo modernissimo di usare la fotografia, un marchio di qualità. Al punto che a La7, quando nel marzo del 2002 si trattò di trovare un nome al contenitore del mattino, Antonello Piroso ebbe il guizzo di proporre il longanesiano: “Omnibus”.
La rivista durò meno di due anni. Ma che anni. Anni ad altissima intensità, culminati con la chiusura forzata. “Il lavoro a cui vado incontro è pauroso”, scrive Longanesi, “mi sento solo come Cappuccetto Rosso nel bosco”. Progetta il giornale senza redattori. Prende Mario Pannunzio alle prime armi. Arrigo Benedetti solo un poco più esperto. Più le firme. Nomi che letti oggi fanno brillare gli occhi. Ma non pochi, all’epoca, ancora da inventare. Corrado Alvaro, Dino Buzzati, Tommaso Landolfi, Curzio Malaparte, Eugenio Montale, Alberto Moravia, Aldo Palazzeschi, Giuseppe Prezzolini, Leonardo Sinisgalli, Mario Soldati, Sebastiano Timpanaro, Irene Brin. La firma di Longanesi, invece, non compare mai, in nessuna delle 1156 pagine che andarono in stampa. Eppure è ovunque. Metteva mano agli articoli. Anche pesantemente. Tagliava, riscriveva, smontava, rimontava. Giovanni Lombrassa, uno che era stato indicato come direttore, gli scrive una lettera feroce dopo lo stravolgimento di un suo articolo. “E’ indebitamente firmato da me. La metà del testo originale è stata tagliata. E dei 61 periodi che esattamente costituiscono la parte stampata, non uno (dico uno) è quale io l’ho scritto”. Per questo, comunicava, rinunciava al compenso.
Non fu l’unico a incazzarsi. Quando il Duce vide il primo numero di Omnibus tirò giù una bestemmia. In prima pagina Longanesi aveva messo Léon Blum, il capo del governo del Fronte Popolare francese, espressione dell’unione di tutte le forze di sinistra contro il pericolo fascista. Oggi s’incazzerebbe tutta la destra, a leggere in seconda pagina che Allah è grande e Mussolini potrebbe essere il suo profeta, che non c’è “antitesi tra l’Islam e lo spirito dell’Occidente”. Era il tempo della conquista dell’Africa. Il Corano si leggeva come instrumentum regni. Oggi si ha paura dell’invasione degli africani e il Corano è diventato minaccioso. Ma quel che conta dell’esordio di Omnibus è che fu l’inizio di un scostamento dalla propaganda fascista che creò una tensione costante tra il regime e il giornale.
Allo scoccare del primo anno d’Impero, per esempio, Longanesi s’inventò una prima pagina capolavoro. Raccolse tutte le agenzie di stampa straniere sull’avanzata italiana e selezionò solo quelle che davano cattive notizie sull’operazione fascista. Titolo: “Romanzo di un anno”. Era una celebrazione. Ma anche un’irrisione. Non solo dei gufi dei nemici. Ma anche delle esaltazioni retoriche del regime.
Era ciò che ogni settimana spingeva un giovane Leonardo Sciascia ad acquistare il giornale, “rinunciando per una sera al cinema”, per gli articoli sull’America di Vittorini, Moravia, De Chirico, i racconti di Caldwell e Saroyan, “era come se da quel tessuto di noia che era la nostra vita di ogni giorno, improvvisamente balzasse nel fuoco di una lente, che lo ingrandiva e lo deformava, un particolare della trama, un nodo o una smagliatura. Pensavo: così si deve scrivere, così voglio scrivere”. Colpisce ancora leggere la stroncatura di Céline scritta da Malaparte, quella di Ezra Pound fatta da Mario Praz, oppure Alvaro che contesta il centralismo statale nel pieno accentramento fascista, o un reportage dalla Palestina ebraica che racconta una famiglia che pratica l’amore libero, la coppia aperta. Sono cose che un lettore contemporaneo capisce al volo quanto potessero urtare. Ma molti altri riferimenti meno spettacolari non è facile decifrarli. Erano necessariamente tra le righe. Nelle sfumature. Nell’esaltazione parodica. Nell’ambiguità. Nel dire una cosa con le parole e lasciarne intendere un’altra con una foto. Ci vorrebbe un apparato critico per averle tutte chiare.
Colpisce ancora leggere la stroncatura di Céline scritta da Malaparte, quella di Ezra Pound fatta da Mario Praz, oppure Alvaro che contesta il centralismo statale nel pieno accentramento fascista, o un reportage dalla Palestina ebraica che racconta una famiglia che pratica l’amore libero, la coppia aperta
Racconta Dino Alfieri, ministro della Stampa e della propaganda del regime, che Mussolini reagiva furiosamente alle uscite del giornale. Dava imperiosamente ordine di “sospenderlo”, ma Alfieri faceva decantare la rabbia del Duce e intanto smussava le intemperanze di Longanesi. E, il giorno dopo, Mussolini chiedeva: “Avete dato ordine di sopprimere Omnibus?”. No, non ancora, diamogli un’altra settimana. Facendo leva sulla stima che Mussolini nutriva per Longanesi. “E va bene”. E di settimana in settimana, si arrivò al 28 gennaio del 1939, quando venne davvero chiuso. Ufficialmente, la causa è un articolo di Alberto Savinio che racconta la morte di Leopardi a Napoli mentre infuriava il colera, a causa di “una leggera colite che i napoletani chiamano ‘‘a cacarella’”, dovuta “all’irrefrenabile ingordigia” di “gelati, sorbetti, mantecati, spumoni, cassate e cremolati”. Un terribile affronto al Poeta e alla città. Ma, in realtà, Savinio aveva toccato un altro tasto, assai meno lirico. Aveva contestato la chiusura del bar Gambrinus, non sapendo che l’aveva fortissimamente voluta la moglie del questore, che abitava sopra, disturbata dal via vai della clientela. Il questore fece fuoco e fiamme e il Duce stavolta prese la palla al balzo e chiuse Omnibus davvero.
Longanesi scrive a Mussolini una lettera per pregarlo di tornare sui suoi passi. “Da quindici anni, ho servito con lealtà la causa del fascismo”. Poi un’altra in cui si dichiarava “pronto a obbedire ai Vostri ordini”. Ad Alfieri offrì la testa di Savinio, “per dimostrare al capo del governo” di non aver “alcun indirizzo discorde”. Ma non ci fu nulla da fare. Iniziò per lui quella che Indro Montanelli, suo allievo e principale erede, definì la “fuga in Italia”. L’amara testimonianza – proseguita nel dopoguerra con il settimanale il Borghese e la casa editrice che porta il suo nome – di uno scrittore che era stato troppo per il fascismo e troppo poco per l’antifascismo. Incarnazione di quell’Italia che era passata dal regime alla Repubblica senza vivere la Resistenza. Il paese che si sarebbe inabissato per tutta la prima repubblica per poi riemergere nel 1994 insieme all’onda di Silvio Berlusconi. Un vero padre della destra italiana. Altro che Gramsci e Pasolini. Autori su cui la destra d’oggi si è messa in testa di costruire la propria egemonia, mantenendo però intatto il Pantheon della sinistra.
Per tutta la vita, Longanesi soffrì la propria bassa statura. Malaparte diceva che, per rimediare, s’era messo sotto i tacchi tutto l’Ottocento. Quando morì, a 52 anni, al suo funerale andarono in dieci. Sebbene fosse stato riconosciuto anche da chi poi aveva preso altre strade, come Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti che definì Longanesi “un maestro” e Omnibus “un’esperienza morale”. Oppure Eugenio Scalfari che s’accapigliò con Ernesto Rossi per riuscire a spiegargli che “quel tanto di latente antifascismo che poteva manifestarsi negli anni Trenta non ebbe altri modi di espressione che quelli forniti dal longanesismo e dai sottintesi di Omnibus”. Una gran lezione anche per l’oggi. Il tempo in cui ciascuno sale sulla propria barricata per lanciare l’assalto al nemico. Noi da una parte, loro dall’altra. Mentre mancano quelli capaci di rivolgere alla propria parte lo scetticismo, l’intelligenza, l’ironia, il gusto, il senso estetico e del ridicolo. Di qua e di là della trincea.
LA DECOLONIZZAZIONE CHE TOGLIE GESù DALLA SUA FESTA
Il Natale è un patrimonio culturale, non un dogma da neutralizzare