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1931-2025
È morto Pierre Nora, ultimo intellettuale del XX secolo
Fu storico, editore, professore: tanti ruoli ricoperti in una vita sola, mantenendo sempre uno stile singolare da una posizione quasi periferica rispetto alle istituzioni che rappresentava. Ci mancherà il suo sguardo originale, eccentrico e libero
Con buon tempismo, il primo lunedì di giugno di quest’anno sbalestrato che ha visto il mondo occidentale smarrire le sue certezze, esce di scena all’età di 93 anni Pierre Nora, l’ultimo intellettuale europeo del XX secolo, che fu storico, editore, professore, e ha coperto tanti ruoli in una vita sola, mantenendo sempre il suo stile singolare da una posizione eccentrica, laterale, quasi periferica rispetto alle istituzioni che rappresentava, e però sempre in grado di esercitare uno sguardo originale e sostanziale. Sostanziale come storico, quando giovanissimo si mise a studiare l’opinione pubblica russa tra il 1815 e il 1840, scegliendo come punto di osservazione Astolphe de Custine, lo scrittore romantico che denuncia nelle sue lettere l’illusione zarista del paesaggio Potëmkin, mentre tutt’intorno a lui (erano gli anni Cinquanta) la borghesia intellettuale francese fremeva dietro le promesse e le bugie dello stalinismo.
Sostanziale come saggista, quando pochi anni dopo, in piena guerra di Algeria, pubblicò un libro capitale sui francesi d’Algeria, che gli valse la doppia ostilità dei nazionalisti e degli anticolonialisti. Ancor più sostanziale, quando entrò da Juilliard come editore e si mise a pubblicare una serie di collane di successo per spezzare le barriere tra la storiografia universitaria e lettori comuni. E ancora più eccentrico quando, sempre in nome dell’apertura mentale, dell’ubiquità delle menti pensanti, della lotta contro il partito preso di destra e sinistra, passato da Gallimard, nonostante la derisione di Aragon (il poeta comunista che lo considerava un erudito), si lanciò in altre brillanti prodezze. E inventò prima l’Egostoria, perché in anni di conformismo, mentre si cominciavano a sentire i primi scricchiolii che avrebbero mandato per aria la cappa ideologica dell’hegelismo, del marxismo e dello strutturalismo, Nora sentì l’urgenza di mettere la storia e gli storici di fronte a uno specchio, di spingerli a mettere a nudo i propri presupposti. Vieppiù sostanziale, innovativo e, lasciatemelo dire, libero, come un personaggio da romanzo, quando agli inizi degli anni Ottanta lanciò un’altra brillante invenzione editoriale, “Les lieux de memoire”, opus magnum in sette volumi, con cento e più collaboratori invitati a raccontare i luoghi della memoria, simboli, personaggi, miti di quell’enorme patrimonio universale che in Francia rappresenta la storia patria, storia regia e repubblicana e, sempre e comunque, storia di una nazione che per prima, e in forme rivoluzionarie, ha inventato la democrazia moderna, col suo traino di passioni e atrocità, di leggende e ferali illusioni. Da allora quel modello è diventato universale.
Non c’è facoltà, centro di ricerca, istituto di studi che non abbia la sua collana di studi dedicata ai Luoghi della memoria, ma l’antesignano fu lui, Pierre Nora, il puer aeternus della buona borghesia francese, il letterato finissimo, lettore di Proust e Saint Simon, il figlio del grande urologo parigino, ebreo alsaziano di origine, ma a tal punto assimilato da aver cambiato nome invertendo le lettere del patronimico “Aron”, e così solidamente repubblicano da non temere il salvataggio in extremis da parte di un vecchio compagno d’arme nella Grande guerra, ormai collaborazionista nel regime di Vichy, che lo ripagò del soccorso di un tempo, risparmiandogli la persecuzione e la deportazione. Erano molti lari i penati da venerare per Nora.
Per essere un innovatore è sempre stato un tradizionalista, intriso di malinconia proustiana, e però sempre disposto al gioco delle apparenze, a una sorta di marivaudage delle idee, da praticare nei momenti più cupi e cruenti, la guerra d’Algeria, gli anni del Terrorismo, o le polemiche del negazionismo sulla Shoah, anche a costo di lanciare giudizi fallaci sull’attualità politica più effimera. Come quando nel 2006 scommetteva sull’elezione di Ségolène Royal all’Eliseo, in forza della “pente lourde” della società francese tutta orientata verso l’eguaglianza di genere e il potere delle donne. Eppure quest’uomo speciale che somigliava a Paul Newman e aveva un’eleganza senza tempo era tutto tranne che un dandy.
Era un essere coltissimo e profondo, dotato di una lealtà verso se stesso, verso i suoi amici, e verso le sue stesse convinzioni. Lo dimostra la fedeltà alle idee, l’avversione senza cedimenti nei confronti delle leggi liberticide sulla ricerca storica, in materia di antirazzismo e di antisemitismo. Lo dimostra l’amicizia piena di rimpianti ma senza riverenza per François Furet, lo storico della Rivoluzione e il critico del giacobinismo che ne fu il cognato e che lui sempre considerò un fratello, prematuramente scomparso nel 1997, e di cui nel 2001 prese il seggio all’Académie française. E soprattutto lo dimostra l’amore per la vita e l’amore per l’amore, che lui stesso ha raccontato nell’autobiografia pubblicata da Gallimard nel 2021, “Jeunesse”, uno dei più bei libri degli ultimi anni, e che ha finito per premiare “l’odiosa impotente vecchiaia, che non ha amici, ma solo mali su mali” come pensava Sofocle, grazie al miracoloso incontro della donna che sarebbe diventata la sua ultima sposa, Anne Sinclair.