Ansa

Memoria reticente

Il caso Ruffilli e una sinistra incapace di ricordare le vittime del terrorismo rosso

Giovanni Belardelli

La sinistra, pur dominando il discorso pubblico sul ricordo, evita di affrontare apertamente le proprie ombre storiche: chi è morto viene spesso dimenticato o ricordato senza chiarezza

Scriveva Tzvetan Todorov nel 1995 che gli europei erano “ossessionati da un nuovo culto, quello della memoria”. Trent’anni dopo, almeno per l’Italia, è forse appropriato parlare, più che di un culto, di una nuova retorica che domina il discorso pubblico. Nel senso che si moltiplicano le giornate addette al ricordo, le pensose esortazioni al dovere della memoria, ma in un contesto che sembra andare in tutt’altra direzione, quella dell’incuria e di una memoria spesso reticente. E’ un esempio di entrambe – l’incuria e la reticenza – il modo in cui nella toponomastica romana viene ricordato Roberto Ruffilli: con una “rampa”, cioè una piccola scalinata, a lui intitolata nel quartiere cosiddetto africano. Al di là della scelta minimalista forse non proprio adeguata a una vittima delle Brigate rosse, colpisce lo stato di abbandono in cui la scalinata viene lasciata. Ma non si tratta di un caso isolato, se guardiamo alla geografia memoriale, chiamiamola così, della capitale. Nei giorni scorsi l’inserto romano del Corriere della sera osservava come il monumento in ricordo dei 600 mila IMI, i militari italiani internati in Germania che rifiutarono la libertà in cambio dell’adesione alla Rsi, sia di fatto invisibile nascosto com’è da “rifiuti ed escrementi”. Lo stesso giornale denunciava come il monumento a De Gasperi, restaurato solo un anno fa, sia di nuovo in condizioni di abbandono. Sono esempi romani, ma temo che se ne trovino di analoghi in altre parti del paese. Alla faccia del culto della memoria, verrebbe da dire.


Torniamo però alla rampa Ruffilli, perché testimonia anche, come dicevo, del carattere reticente con cui ancora oggi ricordiamo certe figure e momenti della nostra storia recente. Ruffilli vi è indicato soltanto come “storico e politico”, senza alcun riferimento ai suoi assassini. E non dev’essere un caso perché, sempre nella capitale, le due lapidi che ricordano l’uccisione di Ezio Tarantelli e Massimo D’Antona, rispettivamente per mano delle Brigate rosse e delle Nuove Brigate rosse, utilizzano entrambe la stessa identica espressione: si riferiscono all’assassinio perpetrato da una non meglio specificata “mano terrorista”. Difficile non pensare che si tratti di una reticenza che ha un segno “di sinistra”, a conferma di come nel nostro discorso pubblico sia esistita e per molti aspetti esista tuttora un’egemonia in senso lato appunto di sinistra. Osservazioni analoghe si possono applicare alla targa che nel parco romano di Villa Chigi è dedicata a Paolo Di Nella, giovane del Fronte della Gioventù morto in seguito all’aggressione da parte di militanti di estrema sinistra rimasti sconosciuti: lo si ricorda soltanto come “vittima della violenza politica”. Forse dovremmo chiederci se non sia anche per questa reticenza a chiamare le cose (e gli assassini) col loro nome che tanti giovani nulla sanno delle Brigate rosse e molti di loro, come documentava l’anno passato un’indagine della Fondazione Occorsio, addirittura le considerano un’organizzazione mafiosa.

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