Lunedì scorso a Forlì il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha commemorato Roberto Ruffilli, assassinato dalle Brigate Rosse il 16 aprile 1988 (foto LaPresse)

L'antesignano Ruffilli

Lorenzo Ornaghi

A trent’anni dalla morte per mano delle Brigate Rosse, la sua lezione sui rischi che corre la democrazia italiana è più che mai attuale. Il progetto per ammodernare lo stato e il lavoro per una riforma istituzionale

Pubblichiamo ampi stralci del saggio “Il realismo cristiano per la convivenza umana”, appena apparso sulla rivista Vita e Pensiero, firmato da Lorenzo Ornaghi, già rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

 


 

Nel tempo in cui Agostino Gemelli compiva l’ultimo tratto di cammino terreno, tra i chiostri del suo Ateneo, e in particolare dentro il Collegio Augustinianum, un gruppo di giovani studenti stava conoscendo un’esperienza di educazione e di vita universitaria, che avrebbe costituito una sorgente ineguagliabile, e mai più dimenticata o trascurata, del loro futuro servizio alla politica e alla società italiana, oltre che dei vicendevoli rapporti di forte amicizia. Fra questi giovani studenti, vi era Roberto Ruffilli. Immatricolatosi nel 1956 alla Facoltà di Scienze politiche, e ammesso nello stesso anno al Collegio di cui sarà poi direttore durante l’aspro biennio dall’autunno del quello del 1970, egli conseguirà la laurea nel febbraio del 1961 discutendo una tesi in Storia delle dottrine politiche, elaborata sotto la guida di Gianfranco Miglio e avendo come correlatore Cinzio Violante.

 

(Lo scorso 16 aprile) sono stati trent’anni dalla morte di Roberto Ruffilli, assassinato dai brigatisti rossi non molto dopo il compimento del suo cinquantunesimo anno di vita. E la domanda che nello strazio di quei giorni tormentò gli amici – che cosa rimarrà, d’ora in poi, dell’uomo che abbiamo conosciuto e amato? – non è più sospesa inquietantemente, alla ricerca di una salda risposta terrena da affiancare alle certezze offerte dalla fede. Dopo quel drammatico sabato di trent’anni fa, il correre degli eventi pubblici ha reso via via sempre più evidenti a tutti i risultati dell’intelligenza politica di Ruffilli. E, facendo scoprire il valore e la perdurante validità di molte delle sue proposte di correzione o cambiamento delle nostre istituzioni, ha accresciuto la consapevolezza che egli – con le sue idee, i suoi convincimenti, la sua dirittura morale – è una presenza tuttora viva, sempre più viva proprio in forza di ciò che si è trasformato e vorticosamente si sta modificando dentro quella realtà che lo appassionò ed entusiasmò in misura forse maggiore di ogni altra. La realtà, cioè, di una politica che, per non corrompersi nella mera lotta tra posizioni personali di potere o fra temporanei vantaggi di questa o quella fazione, non può che essere intesa e praticata quale insostituibile attività di miglioramento di ogni forma stabilmente organizzata di convivenza umana, un miglioramento incessantemente progressivo, oltre che sempre più guidato, e in modo non intermittente, dai principi dell’autentica giustizia sociale.

 

Dalla sua tesi “Storia della storiografia costituzionale italiana del Settecento: Pietro Giannone” ai primi lavori scientifici sull’appodiamento e il riassetto territoriale nello Stato Pontificio fra il 1790 e il 1870, sulla questione regionale dall’unificazione alla dittatura fascista, sui problemi dell’organizzazione amministrativa nell’Italia liberale, Ruffilli conosce bene quale sia la straordinaria rilevanza delle istituzioni non solo in ordine al “buon governo” di una comunità, ma anche e in particolare alle aspettative di vita di un sistema politico, prima ancora che di una classe politica. Ne conosce il ruolo di “regolazione”, o di “disciplinamento”, nei confronti delle intemperanze o prepotenze di chi comanda, così come dei diffusi cedimenti alle malefatte o ai vizi da parte di chi è comandato. Ne apprezza l’oggettiva funzione di condensare in sé, e poi trasmetterlo alle generazioni future, ciò che costituisce l’identità di un popolo, o l’anima di una comunità. Con realismo cristiano, nutrito dalla sapienza dell’Ecclesiaste e dalla confessio laudis di sant’Agostino, non sopravvaluterà mai, però, le virtù di pur buone e magari ottime istituzioni, quasi che soltanto da queste vengano a dipendere – senza riguardo alcuno per la natura umana di governanti e governati – le qualità di un sistema politico, oltre che il domani, auspicabilmente migliore del presente, dell’intera collettività.(…)

 

Ruffilli dedicò moltissime delle sue energie alla riforma elettorale. In essa vedeva infatti non solo convergere tutte le fondamentali “ragioni” di ogni altro cambiamento istituzionale, ma anche mutuamente rinforzarsi resistenze più o meno argomentate e palesi, inerzie antiche e recenti, interessi male calcolati, oltre che provvisori e talvolta aleatori, di partito o di ristrette oligarchie. Soprattutto, a una nuova legge elettorale, condivisa il più largamente e convintamente possibile dai maggiori partiti, si doveva affidare la ragionevole speranza di contrastare e magari invertire il pericoloso processo di “separazione-contrapposizione” fra il ceto politico e strati sempre più ampi della cittadinanza.

 

Con la riforma istituzionale si sarebbe potuto e dovuto “ammodernare” lo stato. Rispetto, in primo luogo, alle strutture e alle procedure, da cui le autonomie territoriali e funzionali erano state sacrificate o svuotate nel corso della specifica vicenda storica dell’unificazione italiana. E, poi e in particolare, nei confronti di quella secolare configurazione di “poteri” distinti o pseudo-separati che, tipica del moderno Stato la cui “crisi” non aveva mai smesso di attrarre gli interessi storiografici di Ruffilli, veniva ora sempre più frequentemente disarticolata non solo dai cambiamenti sociali ed economici interni alla sintesi statale, ma anche dai processi di crescente internazionalizzazione e dallo smascheramento dell’antica finzione di una completa, assoluta sovranità dello stato. Nondimeno, sulle sorti della storica “sintesi statale”, dei suoi tradizionali poteri e delle sue vecchie o nuove funzioni, a pesare è soprattutto il futuro della “democrazia dei moderni” e di ciò che sta al cuore di quest’ultima, ossia il regime rappresentativo-elettivo. Il terreno delle riforme necessarie e di quelle possibili, però, rischia di diventare una palude, di essere trasformato, all’apparenza o per malintesa convenienza, in (sono parole di Ruffilli stesso) “una sorta di deserto dei tartari dove si attende qualcosa che non succede mai”. Proprio per questo motivo, il ridefinire la legge elettorale – certo, secondo le pur dure contingenze del momento politico, e però con l’occhio vigile sul domani – se non riesce a essere il punto conclusivo della riforma istituzionale, “potrebbe diventarne anche punto di partenza”. (…)

 

Grande è l’inquietudine di Ruffilli nei riguardi delle capacità della democrazia italiana di mantenersi vitale. In sintonia, ricorrente ed eloquente, con le analisi e le preoccupate riflessioni di un altro studioso di forte tempra intellettuale e morale quale Giovanni Marongiu, anche Ruffilli si avvede di quanto possa essere incombente lo sgretolamento di quel “sistema dei partiti” che è venuto alla luce con la fase costituente della Repubblica e che, grazie alla Costituzione, ha fatto nascere la democrazia italiana. Tanto più improvviso minaccerebbe di essere un tale sgretolamento, quanto più la distanza fra politica e cittadini accentuasse quella sorta di privilegiato auto-isolamento dei partiti, conseguente alle difficoltà o alla non volontà di cercare e poi indicare il “senso” dei cambiamenti in corso nella società. Oltre a risultare improvvisa, la fine di quel “sistema dei partiti” trascinerebbe con sé anche il rapido svilimento della natura e dell’idea stessa dei partiti quali architrave della democrazia, quando il rapporto di vicendevole alimentazione fra ciascun partito e la “cultura” che lo ha generato si dovesse spezzare, azzerare, o sembrare (non importa se per colpe e omissioni dell’una piuttosto che dell’altra parte, o invece di entrambe) ormai di scarso conto.

 

Non è mai risuonato retorico o sordo, in Ruffilli, il rapporto geneticamente coessenziale fra la democrazia italiana e i partiti dell’età costituente della Repubblica. Né la sua considerazione delle “culture” – indispensabili per poter comprendere senza pregiudizi immediate corrispondenze, o invece coerenze più difficili da costruire, fra la realtà del popolo italiano e quella dello Stato unitario – si è mai rivelata incline all’astrattezza o, peggio, all’uso strumentalmente ideologico del passato più o meno recente. La Costituzione repubblicana era stata ed è, in tal senso, il migliore e più alto punto possibile di confronto, incontro e cooperazione fra le “culture” fondamentali dell’Italia contemporanea. E proprio in forza di ciò ai partiti era toccata una ‘responsabilità’ (o, quantomeno, ne era stato loro addossato un non lieve supplemento) al tempo stesso sociale e istituzionale. La responsabilità, cioè, di operare come “sistema” di equilibrio (e sano orientamento) della società, dei suoi divergenti o confliggenti interessi, delle sue fluttuanti rappresentazioni e opinioni nei confronti della politica. E, congiuntamente, la responsabilità di essere la fondamentale associazione politica di cittadini, cui la democrazia italiana affida le condizioni stesse della propria esistenza, le possibilità “vere” del proprio sviluppo futuro.

 

Su questa duplice responsabilità si legittima il “primato” politico dei partiti. Un primato, però, inevitabilmente condannato a finire, se i partiti diventano soltanto la “punta” rappresentativa degli umori di quote pur magari larghe di cittadini, o, ancora peggio, si tramutano in una “parte” che, per accamparsi temporaneamente dentro questa o quella istituzione, nei fatti rinnega tanto l’esistenza del “bene comune”, quanto il valore del “senso dello Stato”.

 

Letti o riletti oggi, gli scritti e gli interventi politici di Roberto Ruffilli – con i loro sempre più frequenti richiami ai pericoli di “chiusura oligarchica […] nel movimento cattolico come per altri partiti”, di “personalizzazione del potere”, esasperata già dentro la competizione politica e accentuata ulteriormente o deformata dai mezzi di comunicazione, di “entropia del sistema dei partiti” – ci portano dritti al cuore del nostro presente. E costituiscono, almeno in buona misura, la risposta non provvisoriamente consolatoria all’intima, sofferta domanda che oppresse la mente e il cuore di alcuni fra gli amici più cari, trent’anni fa, nel giorno della sua sepoltura.

 

In questi trent’anni, con grande frequenza sono riaffiorati anche in me molti ricordi personali. E ogni ricordo, tutte le volte, è immancabilmente accompagnato da altri due, che la memoria restituisce talmente nitidi da farli sembrare la perfetta rappresentazione di fatti accaduti solamente ieri. Il primo, l’incontro con Ruffilli, all’avvio del seminario che egli teneva per le matricole di Scienze Politiche all’Università Cattolica, e che in quell’anno accademico 1967-68 aveva come tema Benjamin Constant, la sua concezione di libertà, l’idea di “sovranità popolare” e quella di “garanzie”, la proposta di “potere municipale”. L’altro, il pranzo a tre con cui Ezio Maria Leo – in un’afosa giornata dell’ultima settimana del giugno 1983 – volle festeggiare il fraterno compagno di Augustinianum, venuto a Milano all’indomani stesso della sua prima elezione a senatore della Repubblica. Approfittando di un’inattesa e brevissima sospensione dei loro fitti commenti sul presente e sull’incombente futuro della politica italiana, cui s’intrecciavano rievocazioni scherzose di questo o quel personaggio passato per le stanze del collegio o per le aule dell’ateneo, chiesi a Ruffilli come sua madre avesse accolto la notizia dell’elezione. Con l’inconfondibile sorriso che accompagnava i suoi momenti di maggiore allegria, o di più intensa e trattenuta emozione, rispose che la madre aveva soltanto domandato: “Non ti faranno del male?”.

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