L'Aula del Senato (foto LaPresse)

La necessità di affrontare la riforma delle istituzioni con “realismo cristiano”

Luigi Gianniti

Ruffilli mette in guardia dai rischi di una delega “agli onesti senza l’assunzione delle responsabilità dei singoli e delle formazioni sociali”

Pubblichiamo ampi stralci del saggio “Grande riforma, un sogno (ancora) possibile”, contenuto nell’ultimo numero della rivista Vita e Pensiero, scritto da Luigi Gianniti, direttore del Servizio studi del Senato della Repubblica.

 


 

Fare dei cittadini l’alfa e l’omega di una democrazia sempre più trasparente ed efficiente”. Così nel 1988 Roberto Ruffilli chiudeva l’ultimo suo scritto (L’alfa e l’omega, 1988 ora in Istituzioni, Società, Stato, vol. III, Bologna 1991, pag. 944). Il 16 aprile di quell’anno veniva ucciso dalle Brigate Rosse. Dieci anni giusti dopo la morte di Aldo Moro, lo statista il cui disegno finale, la “terza fase”, fu la bussola dell’azione scientifica prima e politica poi del professore di Forlì. Un disegno condiviso nel merito - costruire le condizioni della democrazia dell’alternanza - e profondamente vissuto nel metodo. Come Moro, Ruffilli è un tessitore paziente, sviluppa la sua azione di intellettuale impegnato nella politica, convinto che occorra trovare nuovi accordi tra i partiti che siano sì imposti dall’emergenza, ma si reggano sulla valorizzazione degli apporti ideali migliori di tutte le forze in gioco.

 

Maturata in anni di studio appassionato una conoscenza profonda del sistema politico italiano, del complesso e ricco patrimonio di equilibri su cui si reggono le istituzioni repubblicane, proprio su questa rivista nel 1981 pubblica un saggio (“Partecipazione politica e sistemi di partito. Problemi e prospettive dell’organizzazione economica sociale e politica”) che è una lucida analisi della crisi delle istituzioni e al contempo offre una visione organica dell’uomo che diventerà, il responsabile per la Democrazia Cristiana delle politiche istituzionali. La storica “crisi di radicamento sociale del potere statale nell’Italia unita” ha finito per attribuire ai partiti, secondo Ruffilli, nei primi decenni della repubblica un ruolo per certi versi di supplenza. Ma le trasformazioni strutturali nel rapporto fra potere politico e società hanno fatto perdere terreno ai partiti ideologici a favore di “partiti elettorali”, gestiti da professionisti della politica impegnati nella ricerca del consenso. Non è questa una evoluzione in sé negativa,secondo Ruffilli, che può portare invece a una fondazione dal basso del potere, a una politica in fondo orizzontalenel segno di quel principio di sussidiarietà radicato nella sua cultura di cattolico impegnato. E’ una evoluzione però resa difficile in Italia “dal persistere di partiti impegnati nella lotta per la affermazione di una propria “egemonia”, segnata anche dalla delegittimazione dell’avversario come forza di governo”. Anche per questo Ruffilli comprende come molti vedano come unica prospettiva quella di un drastico ridimensionamento della presenza dei partiti (...) e una valorizzazione invece delle istituzionia partire dalla Presidenza della Repubblica e dalla Presidenza del Consiglio.

 

E’ di quegli anni la proposta per l’elezione diretta del presidente della Repubblica elaborata da Giuliano Amato e avanzata dal Partito socialista. Secondo Ruffilli la via d’uscita difficile, certo, ma senza alternative valide è piuttosto riconoscere la funzione insostituibile dei partiti dando però piena attuazione all’articolo 49 della Costituzione, e porre contestualmente mano a un “riordino delle istituzioni, se del caso con ritocchi anche della Costituzione, che ponga termine alle disfunzioni nel rapporto tra Esecutivo e Legislativo, nel sistema proporzionale elettorale, nei compiti di direzione della Presidenza del Consiglio”. Non esistono alternative valide secondo Ruffilli a una riforma congiunta dei partiti e delle istituzioni. A questa opera bisogna porre mano con realismo cristiano evitando la tentazione della “semplificazione”. (…)

 

Fedele al realismo cristiano che è la cifra della sua ispirazione, Ruffilli mette in guardia da una “visione alla fine taumaturgica della politica” e dai rischi di una delega “ai tecnici e agli onesti senza l’assunzione delle responsabilità dei singoli e delle formazioni sociali”. Di qui “l’opportunità di affrontare le questioni di fondo sottese alla proposta di Amato con soluzioni più articolate”. Secondo Ruffilli la struttura propria della società italiana rende difficilmente superabile la formula dei Governi di coalizione (e vediamo quanto la storia segnata da tante riforme elettorali volte a costruire un’articolazione bipolare del confronto politico abbia dato ragione a questa lettura del professore di Forlì). La via da percorrere è dunque quella di una loro razionalizzazione attraverso un rafforzamento del ruolo del presidente del Consiglio e della sua capacità di direzione “potenziandone la rappresentatività e la responsabilità rispetto al Parlamento e al paese”, anche con “penalizzazioni per la rottura degli accordi per Governi di legislatura, attraverso ricorsi più o meno automatici all’elettorato”. (…)

 

Per Ruffilli il mantenimento della forma di governo parlamentare è un punto fermo che richiede tuttavia aggiustamenti e razionalizzazioni, dando piena attuazione all’ordine del giorno Perassi. Non dunque una seconda Repubblica, ma un pieno sviluppo dello spirito proprio della Costituzione repubblicana nel segno della lezione e della esperienza di governo di De Gasperi. Ciò in primo luogo attraverso un potenziamento del “ruolo del Presidente del consiglio dei ministri che permetta un’adeguata puntualizzazione della responsabilità del Governo, oltre che nei confronti del parlamento anche nei riguardi dell’opinione pubblica e del Paese”, cui si deve accompagnare una riforma del bicameralismo che ne valorizzi le potenzialità. Ruffilli pensa poi ad uno sviluppo dell’iniziativa popolare. da associare, in caso di inerzia delle Camere, ad un uso nuovo dello strumento referendario. (…)

 

Ruffilli più volte insiste nel corso dei lavori della Commissione sulla “consapevolezza che la modifica delle istituzioni non può diventare la scorciatoia per accelerare evoluzioni del sistema politico che devono svolgersi secondo la logica che ad esso è propria”. Si veda, ad esempio, l’intervento nella seduta della Commissione Bozzi del 17 maggio del 1984. Sono gli anni del confronto tra Craxi e De Mita sulla guida del Governo (il famoso patto della staffetta) ma anche del duello a sinistra tra Pci e Psi; un dibattito politico segnato da esigenze tattiche dietro le quali Ruffilli vede con preoccupazione montare le spinte verso una personalizzazione del potere, rispetto alle quali paventa, già nel 1984, sbocchi plebiscitari incontrollabili. (…)

 

La fase finale dei lavori della Commissione Bozzi fu segnata dal confronto sulla questione elettorale. Ruffilli si batté in particolare, come si è accennato, per un sistema che mettesse in condizione gli elettori di decidere non solo per il partito ma per il Governo, introducendo nel sistema proporzionale un doppio premio in seggi alla coalizione vincente come anche – ma in misura nettamente inferiore – a quella arrivata seconda. L’obiettivo era quello di “creare le condizioni a livello di sistema elettorale che portino alla scelta diretta della maggioranza di governo da parte dei cittadini elettori e a precostituire una dialettica chiara tra maggioranza e opposizione. Una posizione questa destinata a segnare tutto il dibattito sulla riforma elettorale degli anni successivi. Il fallimento della Bicamerale non chiude l’impegno politico e istituzionale di Ruffilli, che è protagonista nel suo partito e nel dibattito pubblico e parlamentare di una serie di proposte che segneranno la legislatura successiva, la X.

 

L’assassinio di Ruffilli avviene giusto alla vigilia della presentazione alle Camere del Governo guidato da Ciriaco De Mita. Un Governo che delle riforme istituzionali possibili fece il nocciolo duro del suo programma, per la prima volta presentato come un organico allegato alla relazione del Presidente alle Camere. La legge sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio, l’organica riforma dei Regolamenti parlamentari e in particolare il ridimensionamento in entrambe le Camere del ricorso al voto segreto, sono parte integrante dell’azione complessiva promossa da Ruffilli per mettere in condizioni “una Repubblica che ha avuto successo, di perfezionare le conquiste raggiunte”.

 

In quella legislatura fu anche approvata (ma dal solo Senato in prima lettura), proprio sviluppando l’intuizione di Ruffilli, una realistica revisione del bicameralismo secondo la quale i disegni di legge licenziati da una Camera, salvo alcune eccezioni di leggi necessariamente bicamerali, si sarebbero dovuti intendere definitivamente approvati se entro il termine di 15 giorni l’altro ramo del Parlamento non avesse deliberato di sottoporli anche alla propria approvazione. Il relatore Leopoldo Elia nel chiudere il dibattito in Senato ricordava quanto questa soluzione dovesse all’ispirazione di Ruffilli, che aveva elaborato un disegno di legge costituzionale nel novembre del 1986, a valle del fallimento della Commissione Bozzi, volto proprio ad applicare l’istituto del silenzio-assenso nel procedimento legislativo con l’obiettivo di una drastica riduzione dei tempi parlamentari e di un sostanziale superamento della navette (A.S. n. 2024 del novembre del 1986. Lo stesso testo fu depositato dal Capogruppo Mancino e dal senatore Ruffilli all’inizio della legislatura successiva nel settembre del 1987, A.S. n. 426). Una riforma semplice, che nelle intenzioni dei proponenti avrebbe permesso anche una naturale specializzazione delle due Camere, e che, pur nella sua apparente semplicità - e per citare Leopoldo Elia - era dotata di una portata “sistemica nel senso indicato dal compianto Ruffilli, sistemica perché non partigiana, non partitica, non finalizzata ad avvantaggiare una forza politica, ma perché a vantaggio dell’intero sistema politico istituzionale”; una riforma con “l’obiettivo primario di accrescere la capacità deliberativa dell’intero Parlamento; è questa la motivazione più profonda che muoveva Ruffilli” (così si esprimeva lo stesso Elia chiudendo i lavori dell’Assemblea del Senato, giusto prima del voto finale sul testo che poi fu trasmesso alla Camera nella seduta del 7 giugno del 1990).

 

Giovanni Spadolini, allora presidente del Senato, volle proprio dedicare a Ruffilli “per il suo impegno nella riforma delle istituzioni” il volume che raccoglie gli atti parlamentari di questo progetto di riforma (La riforma del bicameralismo in Senato, Roma, 1990, a cura del Servizio Studi del Senato). Pezzo non realizzato di quel perfezionamento – son parole di Ruffilli – “della costituzione esistente” che deve tenere fermi “i pilastri del pluralismo politico e sociale istituzionale, in essa sanzionati” (così sempre Ruffilli in L’alfa e l’omega, in Istituzioni, Società, Stato, cit. pag. 941).

 

Oggi, a chiusura di una legislatura segnata dal fallimento di un’altra “grande riforma costituzionale” è più che mai opportuno tornare a riflettere sull’invito a non rifiutare la complessità della democrazia pluralista e ad impegnarsi invece nella ricerca di compromessi ragionevoli che mirino ad un perfezionamento della Costituzione del 1948. Una lezione di “realismo cristiano” che può essere fonte di ispirazione per quella XVIII legislatura che si aprirà a 30 anni esatti dalla morte del professore di Forlì.

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