Novità in libreria
Riscoprire Hitchens salverà la sinistra dall'inesorabile autodistruzione
"Pensava come un bambino, scriveva come un autore eminente e parlava come un genio". A tredici anni dalla morte, un nuovo libro ricostruisce la vita e il pensiero del saggista e critico britannico, che negli ultimi decenni ha spiccato fra i più brillanti polemisti
Christopher Hitchens pensava come un bambino, scriveva come un autore eminente e parlava come un genio, ha scritto qualche anno fa Martin Amis, riformulando una definizione autobiografica di Vladimir Nabokov. Hitchens era un uomo dai giudizi istintivi e viscerali, infantilmente entusiasti (anche se mai ingenui), una penna brillante e un sublime retore. Sostenere una discussione con lui era come trovarsi di fronte a un muro invalicabile, ha scritto lo stesso Amis: le sue frasi compiute, i suoi paragrafi completi conditi con un commuovente disprezzo per le regole del buon senso e con l’“agitazione dell’inatteso” che lo caratterizzava, facevano di lui un polemista insuperabile. E come tutti i più brillanti polemisti, Hitchens riusciva a sublimare un incessante tormento interiore in un formidabile strumento retorico per schiacciare (verbalmente o per iscritto) i suoi avversari. Non era solo un bastian contrario, come lo hanno sbrigativamente descritto i suoi detrattori, era bastian contrario con se stesso, ricercava cioè la posizione più scomoda da difendere, non solo in termini assoluti, ma soprattutto per se stesso.
Da questo scontro interiore nascevano la forza e l’efficacia delle sue argomentazioni. Prima di discuterle in pubblica piazza le metteva alla prova della sua puntutissima coscienza: Hitchens contro Hitchens. Così, quando poi finalmente accompagnava i suoi pensieri al di fuori della bocca, le argomentazioni risultavano ancora più forti e affilate di quanto non fossero inizialmente, proprio in ragione del dibattito interno al quale erano state sottoposte. Una gran bella biografia intellettuale di Matt Johnson, magnificamente tradotta da Guido De Franceschi per i tipi di Linkiesta (Hitchens può salvare la sinistra. Come difendere senza paura la libertà dal fascino per i dittatori e dalla tentazione dell’autocensura, Linkiesta Books), ci restituisce un ritratto a tutto tondo del giornalista-scrittore inglese naturalizzato americano, morto poco più di una decina di anni fa, che molti detrattori hanno descritto come un apostata della sinistra, un transfuga del trockismo vestitosi da neocon guerrafondaio, un oppositore della politica estera americana trasformatosi in un apologeta dell’impero americano. Non tutto tornava in effetti in questa faziosa ricostruzione, dal momento che il vecchio eroe di sinistra riprendeva forma quando andava in tv a criticare la destra cristiana per poi tornare a essere “un neocon con la bava alla bocca” quando criticava l’islam radicale. Destino comune ai migliori polemisti, mai d’accordo con se stessi ma soprattutto mai d’accordo con i propri estimatori, intellettuali irriducibili alle tradizionali categorie della politica e del dibattito pubblico. E’ stato uno dei più brillanti polemisti degli ultimi trent’anni, autore di decine di libri e protagonista di decine di dibattiti televisivi e radiofonici, ha scritto sulla religione come forma di totalitarismo, sul fondamentalismo religioso come fonte inesauribile di odii tribali, sull’“impostura religiosa” di madre Teresa di Calcutta, ha attaccato ferocemente Henry Kissinger e Bill Clinton in libri ormai famosi invocando l’arresto del primo e le dimissioni del secondo, ha elogiato Tony Blair, ha scritto di George Orwell come guida intellettuale imprescindibile ancora oggi, per gli uomini e le donne del XXI secolo, e tanto altro.
Matt Johnson prova a descrivere la sua parabola intellettuale come un percorso coerente che muove dall’internazionalismo giovanile all’universalismo dei diritti umani della maturità, dal pur sempre ambiguo smascheramento dei crimini di Stalin alla battaglia quotidiana contro ogni forma di ortodossia politica e religiosa, passando attraverso la svolta del 1989 quando Hitchens abbandonò i gruppi socialisti americani nell’anno della caduta del muro di Berlino. Hitchens rivendicava di aver sempre difeso il diritto di libertà e di parola e, insieme, tutti i valori promossi dall’Illuminismo, i diritti individuali, la libertà di coscienza, l’umanesimo, il pluralismo, la democrazia. Tali valori a suo parere erano le fondamenta più solide eque e razionali intorno alle quali costruire una società civile in America, così come in Europa o in Iraq o altrove. Detestava il nazionalismo e sosteneva che il sistema internazionale avrebbe dovuto essere costruito intorno a “uno standard comune di giustizia ed etica” (che doveva valere per Kissinger, per Milosevic e Saddam Hussein).
E, sì, sostenne che quei valori dovevano all’occorrenza essere esportati: difendendo la Bosnia dall’attacco di Milosevic, sostenendo dunque che la Nato doveva intervenire per fermare l’aggressione genocida subita dalla Bosnia, supportando l’intervento americano in Iraq. Ma soprattutto, difendendo chiunque in occidente o altrove fosse vittima di tentativi o minacce di censura, da Salman Rushdie al quotidiano danese “Jyllands-Posten”, finito nell’occhio del ciclone dieci anni prima di Charlie Hebdo per aver pubblicato una raccolta di vignette raffiguranti il profeta Maometto. Veniva da sinistra e a sinistra continuava a battere il suo cuore ma Hitchens non era tenero con quella parte della sinistra americana di oggi, prigioniera di “impulsi settari e autoritari”, di un’enfasi sull’identitarismo e sulla prevalenza dei diritti di specifici gruppi rispetto a quelli dei singoli individui, di un orientamento dunque rivolto più alla soggettività e al tribalismo che all’oggettività e all’universalismo. Quando le biografie intellettuali ricostruiscono le idee di un grande personaggio pubblico ma raccontano anche un pezzo della nostra storia più o meno recente illuminandola di luce nuova, vale davvero la pena leggerle.