Hadi Matar, l'accoltellatore di Salman Rushdie in tribunale (LaPresse) 

Era il 1989

Il giorno della fatwa contro Rushdie nel ricordo di Christopher Hitchens

Christopher Hitchens

"Era una questione connessa a tutto ciò che odiavo per un verso e, per l’altro, a tutto ciò che amavo".  Pubblichiamo un passo di “Hitch 22. Le mie memorie”, che ricorda i giorni in cui l’ayatollah Khomeini pronunciò la sua condanna contro l'autore dei "Versi satanici"

Pubblichiamo un passo di “Hitch 22. Le mie memorie”, pubblicato in italia da Einaudi Stile Libero extra, in cui Christopher Hitchens ricordava i giorni della fatwah diretta a Salman Rushdie.


Quando il Washington Post mi telefonò a casa il giorno di San Valentino del 1989 per chiedermi cosa pensassi della fatwah dell’ayatollah Khomeini, sentii immediatamente che si trattava di qualcosa in cui ero coinvolto fino in fondo. Era, se posso esprimermi così, una questione connessa a tutto ciò che odiavo per un verso e, per l’altro, a tutto ciò che amavo.

Nella colonna dell’odio: dittatura, religione, stupidità, demagogia, censura, prepotenza e intimidazione. Nella colonna dell’amore: letteratura, ironia, senso dell’umorismo, l’individuo e la difesa della libertà d’espressione. In più, naturalmente, l’amicizia – per quanto ami pensare che la mia reazione sarebbe stata la stessa se non avessi affatto conosciuto Salman. Per ribadire ancora una volta la premessa del discorso: il capo teocratico di un dispotismo straniero offre denaro a proprio nome allo scopo di istigare l’assassinio di un cittadino di un altro paese, per la colpa di aver scritto un’opera di finzione. Non si potrebbe immaginare una sfida più radicale ai valori dell’Illuminismo (nel bicentenario della caduta della Bastiglia) o al Primo emendamento della Costituzione americana.

 

Il presidente George H. W. Bush, quando gli chiesero un commento, riuscì solo a bofonchiare che, a quanto gli risultava, non era coinvolto alcun interesse americano… Al contrario, disse Susan Sontag, gli americani avevano un interesse generale a difendere la libera espressione dalla barbarie, nonché a difendere i liberi cittadini dalle minacce di omicidio supportate da uno stato e accompagnate dalla sordida offerta di una taglia. Fu provvidenziale che quell’anno fosse lei la presidente del Pen Club, perché divenne presto evidente come la questione non fosse affatto vista in questa luce da tutti. C’erano quelli che pensavano che Salman in un modo o nell’altro si meritasse la punizione, o comunque se la fosse cercata, e quelli che erano semplicemente spaventati a morte e credevano che le squadre della morte dell’ayatollah potessero scorrazzare e uccidere a loro piacimento (Rushdie stesso scomparve in una bolla nera di sicurezza “totale”, e con il passare del tempo finì per essere ucciso il suo traduttore giapponese, accoltellato il suo traduttore italiano, e il suo editore norvegese fu dato per morto dopo aver subito tre colpi di arma da fuoco).

 

Tra coloro che gongolarono per la sorte di Salman, fu sorprendente quanti fossero di destra. Dico “sorprendente” perché i conservatori avevano deplorato la caduta dello scià ed erano rimasti sgomenti dall’ascesa di Khomeini, e risultavano in generale i più inclini a porre l’accento sul termine “terrorismo” quando si trovavano di fronte a sfide violente provenienti dal Terzo mondo. Invece in America l’intera falange dei neoconservatori, da Norman Podhoretz a A. M. Rosenthal e Charles Krauthammer, rivolse la propria ira contro Salman e non contro Khomeini, e sembrava compiacersi del fatto che questo radicale indiano amico del Nicaragua e dei palestinesi fosse diventato a sua volta vittima del “terrorismo”. […]

 

In Gran Bretagna, scrittori e personaggi di stampo più specificamente conservatore, come Hugh Trevor-Roper, lord Shawcross, Auberon Waugh e Paul Johnson, dettero apertamente sfogo al loro disgusto per quel cocciuto muso nero capitato tra di loro e lo accusarono per giunta di aver volutamente provocato un conflitto con una grande religione (nel frattempo, in una dimostrazione alquanto deprimente di quello che soprannominai “ecumenismo alla rovescia”, l’arcivescovo di Canterbury, il Vaticano, il rabbino capo sefardita di Israele rilasciarono tutti dichiarazioni tese a dire che il problema principale non era la taglia offerta all’assassino di uno scrittore, ma il delitto di blasfemia. Il rabbino capo britannico, Immanuel Jakobovits, mirando a una più alta sintesi di sciocchezze, intonò una litania secondo la quale “sia Rushdie sia l’ayatollah avevano fatto un cattivo uso della libertà di espressione”). Miserie di questo genere erano almeno in parte prevedibili. Rushdie era un po’ un sinistrorso; si era messo a turbare lo status quo: poteva e doveva aspettarsi la disapprovazione dei conservatori.

 

Più preoccupanti furono per me i personaggi della sinistra che seguirono quasi esattamente la stessa traccia. Germaine Greer, sempre puntualmente terribile su questi temi, tornò alla ribalta difendendo clamorosamente i diritti di chi bruciava i libri. “L’affare Rushdie – scrisse il critico marxista John Berger a pochi giorni dalla fatwah – è già costato parecchie vite umane e minaccia di costarne molte, molte di più”. E: “L’affare Rushdie – scrisse il professor Michael Dummett di All Souls, – ha prodotto un danno di cui non si parla. Ha accresciuto l’alienazione dei musulmani qui… Si è eccitata l’ostilità razzista verso di loro”. […]
 

Di più su questi argomenti: