Alpinismo
"L'avventura è specialmente dolore", dice Messner conquistatore dell'inutile
Tra Ulisse e Sisifo, Chatwin e Herzog. Le salite che portano a conoscere se stessi e l’alpinismo “divertente” delle nuove generazioni
Alcuni mesi fa, sulle colonne di questo giornale, prendeva piede una sfida per un curioso quanto opinabile primato; ci si interrogava su chi fosse il più grande italiano vivente. Difficile trovarsi d’accordo sul concetto di grandezza, e via i nomi più disparati tra musicisti, registi, calciatori e politici. Oggi che sta per compiere ottant’anni, dopo una vita di scalate e spedizioni sulle montagne più impervie del mondo e avventure nei luoghi più inospitali della terra, penso che Reinhold Messner debba almeno entrare nella rosa dei più grandi italiani viventi. Lo abbiamo incontrato nel Castel Juval, sua residenza estiva nonché museo delle montagne sacre, abbarbicato su uno sperone che sovrasta la Val Venosta, dove ci accoglie tra cedri himalayani e statue induiste di Gerupa e Ganesha.
A soli cinque anni ha compiuto la sua prima ascensione di un 3.000 metri, il Sass Rigais. Così ricorda quella mattina del 1949: “Alla mia età non so più quello che ho pensato di preciso quando avevo cinque anni. Avendo fatto migliaia di ascensioni e cento spedizioni, è chiaro che i ricordi si mescolano. Comunque quello fu un momento molto importante della mia vita”. È stata forse proprio quella bellissima cortina di rocce dolomitiche che escludevano il suo sguardo, come l’ermo colle e la siepe di Leopardi, ad affamarlo di orizzonti. “Sì, ho sempre cercato la luce. Sono cresciuto nel fondovalle della Val di Funes, dove d’inverno non arrivava nemmeno un raggio di sole sulla casa, ma si vedeva che in alto il sole toccava le montagne. E così nasceva questa sete per la luce e la voglia di vedere oltre le montagne. Salendo sul Sass Rigais avevo la possibilità di guardare al di là della mia valle”.
Lei ha scritto che “più si sale più si conosce se stessi, più si conosce se stessi, più bisogna salire. L’uomo è come la montagna: la salita dell’uno e dell’altra non finisce mai”. La montagna è il luogo dove scandagliare nel proprio animo? “Più si sale e più la montagna diventa grande, infinita, mentre tu diventi sempre più debole, meno veloce, e alla fine sei come una formica e hai la sensazione di non raggiungere mai la cima. Questo ti porta ad avere una dimensione di te stesso, a prendere la misura di te sulla montagna, diventi un niente, non sei più importante, puoi anche andartene”. L’alpinismo non è per certi aspetti un peccato di tracotanza, di hybris? “Non credo. L’alpinismo è un fatto culturale, con l’Illuminismo l’uomo si è liberato dalla paura che in montagna dimorassero gli spiriti maligni e poi è arrivata l’industrializzazione che ha portato i mezzi necessari per andare in spedizione in montagna. Per me l’alpinismo è l’arte di andare dove la morte è una possibilità per non morire. E questo non morire è un’arte solo se la morte è veramente una possibilità. Se io la escludo, come nell’arrampicata indoor, non è più un’arte, è sport”.
A Siena si trova un affresco di Ambrogio Lorenzetti che rappresenta il Buon Governo, dove la Concordia è raffigurata come un gruppo di cittadini che tengono tutti insieme una corda, come nelle cordate alpinistiche. L’alpinismo è un modello per il buon governo? “Non lo so, io ho sempre fatto cordata con poche persone, tre o quattro amici al massimo. Solo una volta sul Nanga Parbat nel 1970 ho partecipato a una spedizione di grande dimensione”.
Convenzionalmente la prima ascensione di una montagna si attribuisce a Petrarca che salì sul Monte Ventoso nel 1336. Dunque il primo alpinista fu uno scrittore, un poeta. Scalare le montagne è un’attività poetica e letteraria? “Sì, per me l’alpinismo è la somma di narrativa più attività fisica. Non c’è altra attività sportiva – l’alpinismo non è uno sport ma ha comunque una dimensione sportiva – che contenga tanta letteratura e filosofia come la montagna. Gli alpinisti sono pochi, ma la loro letteratura è sterminata, io qui ho una biblioteca di cinquemila libri solo sull’avventura e l’alpinismo”. Bonatti disse che era stata la letteratura ad aver alimentato da bambino la sua voglia di avventure. E’ stato così anche per lei? Chi sono gli scrittori che l’hanno influenzata maggiormente? So che ama molto Goethe. “Anche Goethe andò in montagna e ha scritto sulle montagne, ma io poi ho letto soprattutto gli alpinisti. Paul Preuss, ebreo austriaco cacciato da tutti i club alpinistici, che non lo volevano, mi è sempre interessato molto e secondo me è stato l’alpinista più importante di tutti i tempi, anche come filosofo molto profondo. Lo lessi in italiano, così imparai anche la lingua”. Goethe diceva che “i monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi…”. “Il silenzio fa parte dell’alpinismo, del mio modo di vivere la montagna. Se oggi vai sulle Dolomiti però, se vai a scalare sulle tre cime di Lavaredo, il silenzio non c’è più”.
La sua figura è pienamente mitica, un po’ Ulisse e un po’ Sisifo. Come scrive Camus nel Mito di Sisifo: “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”. E’ così? “E’ l’ultima frase del libro, una bellissima frase. Sì, io sono un conquistatore dell’inutile, come Sisifo, mi ritrovo molto in questa definizione dell’alpinista Lionel Terray”. Una frase utilizzata anche da Werner Herzog, che nel 1984 realizzò il film “Gasherbrum - La montagna di luce”, riprendendo la sua spedizione assieme ad Hans Kammerlander sulle due cime del Gasherbrum. Che rapporto ha avuto con Herzog? “Questo è il più bel film sulla montagna mai realizzato, che a lungo anche io non ho capito. Lui mi chiese di poter venire e io gli dissi di sì, avvisandolo però che ci avrebbe potuto seguire solo fino a un certo punto. Tentò per settimane di toccare le mie corde più intime, sulla morte di mio fratello, riuscendoci alla fine. Herzog ha qualcosa di geniale”. Credo che per entrambi il camminare vada oltre l’aspetto fisico, ma sia un’azione spirituale, “un’attività poetica che può guarire il mondo dei suoi mali”, come scrisse Chatwin. “Andare a piedi è l’unica forma per spostarsi che è propria dell’uomo. Ho sempre preso misura del mondo con i piedi, sia su una parete verticale di roccia che sul terreno orizzontale. Chatwin è un profondo scrittore, come anche Herzog”.
A un certo punto della sua vita è passato dalle montagne himalayane ai deserti di ghiaccio e sabbia. Che tipo di esperienza è attraversare un deserto, che è, come diceva Borges, il più grande labirinto al mondo? “Il più grande deserto del mondo è l’Antartide, è un deserto di ghiaccio. Lì eravamo in due, non avrei avuto il coraggio di stare da solo per più di novanta giorni là. Nel Gobi ero solo, ma incontrai spesso le popolazioni che vivono nel deserto, che mi diedero anche viveri. Ho sempre coltivato la solitudine”.
Nel suo ultimo libro "La mia vita controvento. Crescere attraverso gli ostacoli" (Corbaccio, 2024), ripercorre la sua vita raccontando episodi significativi, momenti salienti, sempre caratterizzati dal vento contrario. Perché questo libro? “E’ il tentativo di raccontare ancora qualcosa, usando una linea diversa da tutto quello che ho scritto fino a ora. Voglio dare speranza: se il vento è contro di te, impara a volare!”. All’inizio del libro elenca i tredici venti che ha affrontato nella sua vita, dal vento a favore fino al tornado. Qual è stato il vento peggiore che ha dovuto sopportare? “Lo racconto in un capitolo del libro; eravamo in Groenlandia e ci colpì un vento molto forte che assieme alla nebbia ci mise in grande difficoltà. Era peggio della notte, non si riusciva a capire più dove fosse il sopra e il sotto, tutto era fuso e indistinguibile. Provammo a usare delle vele per sfruttare il vento, ma fu molto difficile”.
Junger diceva “dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei”. Il dolore è oggi rimosso dalla nostra società, nella quale si percepisce una forte algofobia, una paura del dolore. Lei che rapporto ha con il dolore? “L’avventura è specialmente dolore. Se oggi chiedi ai giovani perché arrampicano, perché fanno alpinismo, ti rispondono perché è divertente, dà gioia. Non è vero. L’aria di quaranta gradi sotto zero che ti entra nei polmoni senza la maschera fa male! Se i giovani dicono che è tutto fun, posso soltanto ridere…”.
A un certo momento della sua vita, dopo aver fatto l’alpinista, l’avventuriero, lo scrittore e lo sceneggiatore, ha deciso di fondare dei musei. E’ stato un modo per restituire quello che aveva visto, vissuto e imparato? “Prima di tutto era un’altra possibilità di raccontare. Sono usciti sei musei, un centro con cinque satelliti. E’ andata bene, perché è autosufficiente e non prende nessuna sovvenzione. Ogni museo è stato collocato in un luogo in cui la natura fuori dialoga con il tema dentro. Il museo sul ghiaccio per esempio sta sotto a un ghiacciaio, l’Ortles.
I tibetani sono il popolo montano a cui Messner è rimasto più legato, “anche se adesso la loro cultura è distrutta. Sono tibetani che vivono in Cina e sono più o meno d’accordo col governo. In generale sono diventati molto più benestanti e stanno lasciando il mondo dei loro genitori. Attorno all’Everest sta nascendo un centro turistico grande come tutta la Val Venosta”.
“Era geniale nel creare immagini”, così Messner ricorda la regista Leni Riefenstahl, che ha conosciuto negli ultimi anni della sua vita. “Ha fatto bei film, era però legata al sistema nazista e all’interno di quello poteva lavorare. Io penso che lei fosse dotata di un occhio speciale per le immagini, non penso però che fosse molto brava nella scrittura di una storia”.
Sono passati quasi trent’anni dalla morte di Alexander Langer, con il quale ha condiviso una profonda amicizia: “Ho un ricordo molto forte e vicino di lui. Con lui ho iniziato a intravedere certe questioni politiche che prima non mettevo in conto. Sarebbe potuto diventare un politico di grande importanza, lo è stato perché ha inventato i verdi in Italia, ma sarebbe potuto esserlo molto di più”. Com’è stata la sua esperienza da europarlamentare nei verdi? “Io sono un verde liberale, e non sono stato sempre d’accordo con il partito. Infatti ne sono sempre rimasto fuori. Col tempo ho capito però che se facevo un incontro da politico venivano al massimo venti persone, se lo facevo come conferenziere delle mie avventure ne venivano anche mille. Era quindi più saggio mettere le mie energie, specie queste ultime mie energie, in ciò che raggiunge più persone: fare incontri sulla montagna per sensibilizzare al suo rispetto verso, per passare il testimone alle prossime generazioni”. Ha accompagnato più volte in escursione Angela Merkel in Alto Adige. Oggi accompagnerebbe qualche politico? “Parecchi politici italiani me lo hanno chiesto, ma poi non si è mai concretizzato”.
“Sto invecchiando, e anche questa è una bella avventura, abbastanza difficile, specialmente per uno che ha fatto di tutto come me”, così Messner ragiona sulle avventure che intraprenderà nel prossimo decennio. Sarà ricordato come il primo uomo ad aver scalato l’Everest senza bombole d’ossigeno e tutti i quattordici ottomila della terra. “Vorrei che si capisse il mio stile di alpinismo, quello della rinuncia”, anche per questo vorrebbe essere ricordato. “La rinuncia agli aiuti, ai troppi mezzi, in sostanza al consumismo. Se questa forma di alpinismo dovesse rimanere in vita sarei già molto contento”.
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