Una foto di scena del film "Je suis Simone" (Ansa) 

lettere e testi

La lunga e sofferta lotta di Simone Weil fra anarchia e misticismo

Elisa Veronica Zucchi

Ma che cosa sono il vero e il reale per la mistica, filosofa e scrittrice francese fra le più importanti del XX secolo? Torna in libreria “Attesa di Dio” (Adelphi)

Può l’obbedienza essere rivoluzionaria? Simile a un vanificarsi del presente e al rifrangersi di un grido è la scrittura di Simone Weil, che ha l’urgenza di dire il vero e indica, imitando il battito che orchestra la Natura, la presenza di una Seconda Natura, di una ragione soprannaturale. Le onde del mare si susseguono ritmicamente. C’è una perseveranza, nella necessità del flusso, una forza ordinata. Camminando sulla battigia, l’acqua salata ci lambisce, mentre il moto costante cattura e rende inermi, come spossessati della volontà. Tale suono cadenzato parla il linguaggio della necessità e del mistero.

Ma che cosa sono il vero e il reale per la mistica, filosofa e scrittrice francese (di origini ebraiche), fra le più importanti del XX secolo? Anarchica, sindacalista e amica di Georges Bataille, insegna la necessità come obbedienza e l’attenzione come grazia: segue il desiderio di sapere, per incontrare l’amore nascosto fra le pieghe della materia. Lo sguardo lucido sulla fatalità degli avvenimenti è già partecipazione che scardina i meccanismi dell’accadere.

Ora è di nuovo in libreria Attesa di Dio (Adelphi), che raccoglie lettere e testi scritti fra il 1941 e il 1942. La Weil racconta di quando, nel 1937, trovandosi nella cappella di Santa Maria degli Angeli, ad Assisi, ha avvertito l’impulso di inginocchiarsi. Vicina allo “spirito di povertà” di San Francesco, al pensiero di Meister Eckhart e di san Giovanni della Croce, cerca la verità ponendosi in paziente attesa e scegliendo di dare alla vita un’impronta significativa. Lascia l’insegnamento per sperimentare il lavoro in fabbrica. Desidera, come Cristo, la comunione con gli esclusi, tanto che l’alienazione della condizione operaia è al centro delle sue riflessioni. La filosofa indaga le “cause della libertà e dell’oppressione sociale”, creando un parallelismo fra due potenze: quella della coesione sociale e quella innescata dall’azione di forze oscure, che possono essere tremende e ingovernabili. Un sortilegio collettivo, mettendo in atto una macchina propagandistica e sadica che disumanizza l’individuo, manipolandolo, scatena istinti brutali, simili a quelli suscitati dall’ebbrezza degli antichi Romani di fronte ai combattimenti dei gladiatori e alle sofferenze degli schiavi. La tecnocrazia dello stato-nazione che mastica gli sfiancati, glorificando la forza inumana, e la perfidia indifferente che ne deriva sono alla base di ogni totalitarismo (“Sulla Germania totalitaria”).

Mentre spiega la sua concezione cristiana a padre Joseph-Marie Perrin, domenicano, la Weil mostra le sue perplessità riguardo alla Chiesa come fatto sociale, come “patriottismo” inteso come “sentimento che si accorda a una patria terrena”, entro i cui confini permangono irrisolti i rapporti fra l’individuo e la collettività. Accostando la virtù stoica a quella cristiana, sottolinea il valore della conoscenza e chiarisce la sua vocazione alla non-appartenenza; la condizione di esilio è una professione di umiltà, uno svuotamento di sé che permette di udire, nel silenzio, la “parola segreta” di Dio: una parola sorgiva, impersonale, creatrice. In tal senso, l’attenzione pura si rivela la facoltà peculiare del genio.

Il bene più alto è la “grazia di non disobbedire” allo sguardo nascosto di Dio, la cui presenza si manifesta tanto nella gioia quanto nella sventura, come essenza di entrambe. Questo, nota la Weil, è, in modo particolare, evidente nell’Iliade – su cui scrive il memorabile saggio “L’Iliade o il poema della forza” – e nelle tragedie greche, in cui l’eroe umiliato e sofferente è colui che è più vicino all’essenza di ciò che lo eterna.

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