Foto da Getty Images

La mostra

Com'è dolce Venezia fra camerieri, orchestrine, piccioni e turisti

Manuel Orazi

Le Procuratie Vecchie, il restauro delle Generali e ora alla Fondazione The Human Safety Net. Tracey Snelling espone le sue opere architettoniche

Alla voce “dolcezza”, Goffredo Parise nei suoi Sillabari racconta la storia di un uomo che gli somiglia molto: giunto sul letto di una clinica, in una triste giornata di febbraio, ricorda quando pochi mesi prima era libero di passeggiare a piazza San Marco dove il sole mattiniero “con i primi raggi tra i merli delle Procuratie, batté in faccia all’uomo e gli ferì gli occhi ma egli si lasciò un po’ ferire e un po’ no, socchiudendo le palpebre, chiudendo un occhio e giocando”. Quella piazza, in altre parole, rappresentava la dolcezza della vita, fra i camerieri, le orchestrine, i piccioni, i turisti, i kipfel e gli altri dolci serviti con il caffè più antico d’Europa, il Florian dove sono andati tutti, da Casanova a Lord Byron, Goethe e D’Annunzio.
 

Le Procuratie Vecchie sono il secondo lato più antico della piazza – sul quarto ovviamente c’è la Basilica –, certamente il più austero perché era la sede della residenza dei Procuratori della Serenissima, cariche onorifiche e a vita che venivano concesse a fine carriera, si occupavano di manutenzione e beneficenza dei vari sestieri e sono stati ritratti spesso da Tintoretto e Tiepolo nelle loro vesti cremisi. Le Procuratie sono stanze rimaste perciò segrete per secoli finché nel 2020 le Assicurazioni Generali, nate a Trieste ma pur sempre col leone di San Marco nel simbolo e  presenti a Venezia fin dal XIX secolo, le hanno aperte per la prima volta al pubblico dopo un restauro affidato a David Chipperfield, già direttore della Mostra internazionale di architettura alla Biennale del 2012. Al terzo piano delle Procuratie, Generali ospita la Fondazione The Human Safety Net, dedicata ai temi della sostenibilità sociale e ambientale, e accoglie regolarmente convegni ed eventi culturali in uno speciale teatrino attiguo a una biblioteca a scaffale aperto; al secondo piano si svolgono delle mostre, al primo ci sono gli uffici di rappresentanza, mentre al piano terra, sotto i portici, c’è il foro commerciale dove trovano posto una nuova libreria gestita dalla storica Toletta e dedicata ai temi della Fondazione e anche il negozio Olivetti di Carlo Scarpa restaurato e affidato in concessione al Fai fin dal 2011. 
 

Oggi inaugura nella sede della Fondazione una mostra di Tracey Snelling, a cura di Luca Massimo Barbero, che rimarrà aperta fino a domenica 28 aprile, a cavallo dunque della vernice della Biennale Arte diretta da Adriano Pedrosa – la prima manifestazione inaugurata dal nuovo presidente Pietrangelo Buttafuoco. Al terzo piano della Fondazione c’è “A World of Potential” un percorso dedicato ai rapporti fra individuo e comunità e la mostra è la tappa finale. Tema antico, olivettiano peraltro (vedi la rivista “Comunità”) ma non solo: già nel 1958 – anno dell’inaugurazione del negozio di Scarpa al piano terra – Sigfried Giedion in Architecture, you and me, si chiedeva cosa tenesse insieme gli individui, sempre più alienati, nelle città rinnovate dai grandi programmi urbanistici americani o ricostruite dopo i bombardamenti in Europa con immense nuove periferie; vent’anni dopo Georges Perec pubblicava La vita, istruzioni per l’uso, iper-romanzo su decine di inquilini di un condominio parigino immaginario. Snelling presenta opere architettoniche in scala, ricostruzioni di palazzi attraverso le cui finestre si possono osservare le diverse vite che le animano così come dalle stanze della Fondazione si può guardare la piazza attraverso gli oculi nei merli del tetto che tanto colpirono Parise. Alcuni modellini sono dei grandi conglomerati urbani, altri più rassicuranti motel corredati da insegne pubblicitarie al neon – l’autrice è nata infatti in California. Attraverso  modellini vivacemente colorati, illuminati e realizzati in scala, Snelling cerca così di catturare l’essenza della vita quotidiana, dai momenti più banali alle narrazioni più intime dietro alle finestre chiuse, ricreando ambienti ed edifici ispirati alle impressioni di luoghi realmente conosciuti nel corso dei suoi viaggi in giro per il mondo.
 

Colpisce sempre l’interesse crescente degli artisti verso l’architettura e la città, come se volessero metterci le mani più degli architetti, quasi sempre persi dietro a fumosi progetti demiurgici con rare eccezioni come l’incantevole e poetica installazione “Piazza senza nome” di Alexander e Sasha Brodsky in mostra alla Fondazione Galleria Milano fino all’8 giugno.

Di più su questi argomenti: