(foto Ansa)

L'editoriale dell'elefantino

Scalfari era meglio e peggio del nonno messo in scena cent'anni dopo

Giuliano Ferrara

Nelle celebrazioni più andanti mi sembra si perda qualcosa di essenziale come il suo cinismo, il suo gusto per il potere, l’ambiguità politica. A me il suo gioco di specchi e di inganni piaceva perversamente, sebbene fossi sempre dall’altra parte dello specchio

Rispetto lo Scalfari amico, padre, nonno e ora idolo centenario di “una strana gioia di vivere”, come lo rappresenta un suo sodale e biografo della maturità, estraneo alla genesi e alla storia dello scalfarismo ma non al declino rampante del grande vecchio, il forte e chiaro Francesco Merlo. Nella drammaturgia o orchestrazione delle celebrazioni più andanti mi sembra si perda qualcosa di essenziale come il suo cinismo, il suo gusto per il potere e la frode intellettuale, la sua totale assenza di scrupoli, l’immoralismo travestito da predicazione di valori, il rapporto disinvolto con il denaro societario e il patrimonio personale, lo sfrontato provincialismo culturale, l’ambiguità politica, tutte cose molto importanti della sua personalità e del suo immenso successo di mercato come portavoce e profeta della nuova classe media italiana.

A me il suo gioco di specchi e di inganni piaceva perversamente, sebbene fossi sempre dall’altra parte dello specchio, perduto in altri inganni, e abbia strappato con le mie manacce, addirittura per difendere l’onorabilità di Claudio Martelli in Kenia, in un accesso di santa collera per l’ennesima aggressione commissionata a Pansa, un contratto da lui firmato quando andava a caccia di un’egemonia totale, compreso il “diverso parere” da incorporare nel suo bel mondo opinionistico. Mi piacque restare nel luogo che è mio di cercatore della morale ovunque ma non dove gli altri, le maggioranze rumorose, pensano di averla facilmente trovata. 

 

Beatificare Montanelli si può, perché non credeva a sé stesso tranne che per lo stile. Beatificare Berlusconi si può, per la stessa ragione e, in più, perché ha cambiato l’Italia, in meglio e anche in peggio, che è impresa e privilegio non da poco, altro che la saga ereditaria degli Agnelli. Beatificare Craxi è addirittura doveroso, nel bestiario della politica cinquecentesca è un cinghiale divorato dagli squali, la rappresentazione perfetta del torvo che è in noi, altro che Hieronymus Bosch. Nel processo di beatificazione di questi tre entreranno anche la moglie bambina dell’Abissinia, l’harem di Arcore e il disordine societario dei conti aziendali in un paese di semilegalità sistematica, la rassegnazione pentapartitica e la disfatta finale come pena incongrua ma dolorosa e in parte meritata: perché nell’elevazione di Scalfari agli altari dovrebbero mancare la pugnalata alla schiena di Arrigo Benedetti, la vendita di Repubblica per offrire una dote alle figlie, la ricompravendita del giornale morale mediata dal Ciarra e da Andreotti e le tante altre cavalcate tra finanza politica narcisismo e vanità del nostro Bel Ami, sul quale il compianto Ruggero Guarini aveva già scritto tutto? “Voi siete il sale della terra, ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?”: un ricordo scipito o una glorificazione bolsa contraddicono quello che Mauro chiamerebbe “il deposito di senso” della vita e della parabola di Scalfari, oltre che il vangelo di Matteo. 

 

Quando fu fondata Repubblica avevo poco più di vent’anni, ora poco più di settanta. Per mezzo secolo ho avuto bisogno di quel giornale e delle sue campagne benpensanti come revulsivo per vomitare le mie manie al cospetto di un pubblico scandalizzato e indignato, in permanente assetto militante, non potevo non essere legato al carro dell’avversario ideale e pratico e al suo auriga. Scalfari è sempre stato anche un “mito personale”, come direbbe Matteo Marchesini, e al culmine della lotta al terrorismo pubblicai sulle sue pagine un articolo dal titolo fatale, un buon titolo: “Diritto di delazione”; e quando me ne stavo rintanato a leccarmi le ferite di ex comunista il mio amore spudorato per Craxi lo confidai a Pansa in un’intervista dal titolo maligno ma non meno azzeccato: “Giuliano il convertito sulla via di Bettino”. Per questo mi dispiace un po’, sempre con il dovuto rispetto per affetti genuini e trasporti ideologici appassionati, la riduzione a nonno benigno di quel gran figlio di puttana.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.