facce dispari

Ninni Bruschetta: “La qualità della parola muove il teatro e il mondo”

Francesco Palmieri

L'attore noto per il personaggio di Duccio in Boris torna a teatro con un testo di Sciascia. La scrittura tra sacro e riti, la passione per René Guénon e l'amicizia con Battiato. Intervista

Fa teatro, cinema, televisione. Recita, doppia, scrive, canta. Gli piace René Guénon. Si considera anzi guénoniano convinto Ninni Bruschetta, messinese nato il giorno dell’Epifania del 1962, conosciuto dal grande pubblico per l’instancabile attività di attore non protagonista (sull’argomento ha pubblicato anche un “Manuale di sopravvivenza” nel 2016) o, se volete, per avere impersonato lo sbalestrato direttore della fotografia Duccio nelle serie tv del celeberrimo ‘Boris’. Cultore della parola, lettore appassionato, è sospettabile per lui anche un futuro nella narrativa – e forse già lo sa. Bruschetta intanto è fiero di riportare in teatro l’amato Leonardo Sciascia: l’anno scorso fu con ‘Il mare colore del vino’, racconto che dà il titolo a una celebre raccolta; a maggio s’accinge a replicare con ‘La morte di Stalin’ da ‘Gli zii di Sicilia’. Nel frattempo, è andato in scena con ‘1984’ di George Orwell, in tournée assieme a Violante Placido e Woody Neri per la regia di Giancarlo Nicoletti.

Perché ancora un testo di Sciascia?

L’idea è stata di Luca De Fusco per lo Stabile di Catania, dopo ‘Il mare colore del vino’ e sempre con la stessa formula: mettere in scena un testo senza adattamento, senza violarlo. Ambienterò la storia dello stalinista siciliano Calogero Schirò nella scenografia di un talk show inserendo anche le parti in cui Sciascia contestualizza la vicenda con gli accadimenti storici. Credo che la sua scrittura si presti particolarmente al teatro.

Eppure, è una prosa forbita e complessa.

È proprio da lì che nasce il ritmo: forbita perché puntuale nella scelta delle parole e complessa perché articolata. Molti credono, sbagliando, che il ritmo teatrale derivi dalla velocità degli attori o dal modo in cui vengono scritte le battute. Non è così: è la qualità del testo che dà il ritmo. Maggiore è la qualità della parola, maggiore è il ritmo. È nella parola che si concretizza l’azione dell’attore. Il mio auspicio è che, dopo lo spettacolo, chi non ha letto ‘La morte di Stalin’ vada in libreria a comprare ‘Gli zii di Sicilia’.

Sarà in scena anche lei, come per ‘Il mare colore del vino’?

No, stavolta curo solo la regia.

La qualità della parola è così importante anche in televisione?

Sì. Per esempio, quando lessi il copione di ‘Boris’, la sua eccellenza fu così palese che rinunciai a un’offerta che già avevo dalla Rai per un altro lavoro, dove avrei guadagnato il doppio e speso metà tempo. Mattia Torre è stato uno dei migliori autori che abbia incontrato e provai lo stesso entusiasmo davanti al testo di ‘4 5 6’, forse il più bello di tutti i suoi. Mi aveva proposto un ruolo ma ne fui tanto colpito che decisi di produrgli lo spettacolo, assieme a Pietro Sermonti, al Piccolo Eliseo.

Quanto guarda alla qualità della parola fuori del lavoro?

Se il mondo è in grandissima crisi dipende anche da come usiamo le parole, perché sono alla base di ogni sistema culturale. Ora ci attacchiamo ai letteralismi: il presidente/la presidente, il direttore/la direttrice… Ma i letteralismi sono molto più pericolosi applicati alle religioni: islam, ebraismo, cristianesimo. Anche i vangeli, presi in modo letterale, mi sembrano terrificanti. C’è una polverizzazione delle parole, come notava Guénon ne ‘Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi’. Certo, con Google in un istante puoi risalire a un etimo, ma in genere il web diffonde in misura abnorme vocaboli di cui si perde o si stravolge il significato, con conseguenze sul pensiero di chi li utilizza.

Lei ha prestato la voce per gli audiolibri di Stefania Auci sulla saga dei Florio, ‘I leoni di Sicilia’ e ‘L’inverno dei leoni’. Qual è il rapporto tra parola letta e recitata?

Se la mia voce si sposa agli audiolibri non è merito mio: l’ho ereditata da mio padre che faceva l’avvocato e spesso al telefono mi scambiavano per lui. Ora, sembra un paradosso ma è difficile trovare attori che leggano bene, perché non dovendolo mandare a mente sottovalutano lo studio del testo. E poi perché i maestri di teatro insegnano a recitare, ma a leggere insegnano i maestri elementari. Il mio era bravissimo. Però gli attori non sono i soli a trascurare l’importanza della parola letta.

Chi altri?

Frequento la chiesa, sono molto attratto dalle sacre scritture e mi irrita che la maggioranza dei preti non sappia leggere o utilizzi un tono lamentevole, straziante, che allontana le persone. Mi chiedo: noi attori nel corso del tempo impariamo cinquanta, cento copioni, e voi che da venti o trent’anni leggete lo stesso messale possibile che non lo ricordiate? La Messa, salvo le letture, andrebbe detta a memoria.

L’anno scorso ha pubblicato ‘L’officiante’ per Luni Editrice, in cui traccia un’analogia fra il rito e il teatro.

Il teatro, come i riti, consiste anche di rapporti esoterici, soprattutto tra regista e attori. C’è una ricerca interiore che li regola oltre a quella sull’esteriorità, anzi la maggior parte delle cose che accadono in scena sono rappresentazioni dell’interiorità.

Come pensava Franco Battiato, che scrisse la prefazione al suo volume ‘Sul mestiere dell’attore’.

Me lo presentò Mario Martone per una coincidenza di lavoro. Ne nacque una simpatia che diventò col tempo un importante rapporto intellettuale e nel 2003 recitai nel film di Franco, ‘Perdutoamor’. Una persona di incredibile profondità. Si divertiva a precisare che era gurdjeffiano e io guénoniano. Ma confesso che la cosa non ci divideva.

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