FACCE DISPARI

Antonio Franchini: “Shiva è il signore della mia scrittura”

Francesco Palmieri

‘Il fuoco che ti porti dentro’ è l'ultimo libro dell'autore, un’opera su sua madre e su Napoli, la città da cui volle andar via per Milano quando era molto giovane ma che resta sua irrinunciabile matrice. Intervista

Profondamente diverso da lui, Roberto Calasso un giorno volle che fosse Antonio Franchini a presentargli ‘L’ardore’, uno dei suoi saggi più cospicui dedicato ai riti vedici. Entrambi grandi registi editoriali ma anche scrittori (o il contrario), l’uno formulava la categoria dei libri unici, l’altro è autore di libri bisestili, ovvero di una narrativa atipica, che soltanto per l’angustia degli appartamenti si colloca sullo scaffale delle novità italiane. Non c’era data più giusta di un 29 febbraio perché Franchini parlasse di sé e dello spietato racconto scritto su sua mamma, ‘Il fuoco che ti porti dentro’ edito da Marsilio, che è anche un’opera su Napoli, la città madre da cui volle andar via per Milano quando era molto giovane ma che resta sua irrinunciabile matrice.

Nell’èra dei Lacrimosa stillati dallo zuccherificio letterario, lei dà una sberla all’autofiction pastello, viviseziona la figura di una donna aggressiva e incandescente che si contraddice da sola “per non essere d’accordo neanche con se stessa”, una Sirena divoratrice dei figli dalla giovinezza fino alla sua fine. Perché ha voluto farlo?

Per me la letteratura è conservazione della memoria. Questa donna dalle caratteristiche così spiccate, che soprannomino La Talpa, era un personaggio da romanzo che andava raccontato nei suoi estremismi e nelle eccentricità. M’interessava, oltre a quello della maternità, rappresentare i temi che incarnava perché riguardano tutti. Per esempio la dualità fra Nord e Sud, che resta il grande dilemma nazionale dall’unità d’Italia.

 

Come lo declinava una donna di origini sannite, napoletana d’adozione e che visse la vecchiaia a Milano?

Con ossessività, tanto che pensavo di intitolare il libro ‘’O Nord e ’o Sud’. Era l’erede inconsapevole di un sanfedismo reazionario ma venato di ribellismo anarchico, in cui trovava ricetto tutto l’armamentario retorico del Sud contro il Nord, ostile anche a me in quanto figlio che si era adeguato a quel presunto “sangue freddo” padano. Il suo senso d’inferiorità lo ribaltava grazie a una sorta di superiorità morale, la stessa che lo “zappatore” della celebre canzone rivendica rispetto ai “signori”, mentre restava irrisolta la vera paura di mia mamma, che è quella teorizzata da La Capria e che molti napoletani nutrono riguardo a una parte del proprio popolo, i cosiddetti “lazzari”, cioè la plebe antica di cui si teme la prevaricazione.

 

Questa è una sindrome che segna la narrativa napoletana, il suo cinema, la musica e la vita civile, assieme alla consueta distinzione tra chi ha lasciato la città e chi è rimasto. Come oscilla per lei questo pendolo?

Dentro di me convivono con pari forza l’aristocrazia intellettuale napoletana e la componente popolare, che non ho mai guardato con condiscendenza distaccata ma con profonda partecipazione. Mi piacciono in qualche misura pure i neomelodici, e anche se ne percepisco gli aspetti ridicoli o grotteschi, so che mi appartengono. È una sottocultura cui non posso certo aderire fino in fondo, ma nemmeno posso completamente sposare l’anima aristocratica. Chi è consegnato solo all’una o all’altra vede un’unica fetta della città o finisce per non sopportare l’altra. Forse la distanza aiuta a trovare equilibrio, a vedere le cose non dico meglio ma diversamente.

 

Non prova la nostalgia che spinse Ermanno Rea al ritorno e al libro da cui Martone ha tratto un film?

Sono alieno dalla nostalgia soprattutto se è il teatrino che mettevano in scena mia madre e il pizzaiolo Gigino: ‘Gigino, quanto mi manca Napoli…’. ‘Signo’, non me ne parlate…’. Stavano molto meglio a Milano ciascuno per i suoi motivi, però inscenavano la commedia. Potrei farlo anch’io, purché nella totale consapevolezza che si tratta di una recita. La mia appartenenza è di tipo ancestrale, non sentimentalista.

 

Lei a Milano forse sogna il mare, ma nei suoi libri ha raccontato più l’acqua dei fiumi, le canoe tra le montagne.

Scrivo dell’acqua come elemento rituale, purificatore. Il mare di cui hanno parlato autori che mi sono cari, come Hemingway, Conrad, Melville, suscita altre simbologie che riguardano la vastità, lo smarrimento, la minaccia. L’acqua in senso induista è l’acqua dolce e la montagna si riferisce all’ascesa. Mi piace tanto salire sui monti quanto scendere per torrenti. Se dovessi abitare a Napoli starei al Petraio, la zona obliqua che connette le due dimensioni, l’alto e il basso.

 

A Shiva, dio che distrugge per rigenerare, s’ispirò nel libro ‘Signore delle lacrime’. Questa fascinazione si ritrova pure nel romanzo di sua madre?

Personalmente aspiro a questa cifra shivaita, difficile perché si scontra in tutti con la pulsione opposta. Persino mia madre, nella sua furia di Erinne devastatrice, tendeva paradossalmente alla massima conservazione: terrorizzata dai cambiamenti, contraria ai viaggi, protesa alla ritenzione di ogni energia, restìa in maniera viscerale alle diversità.

 

C’è un soliloquio in cui sua mamma le contesta la passione per le arti marziali e la lotta. Eppure avrebbero dovuto piacerle.

Nella sua incontenibile aggressività lottava contro tutti però rigettava questa mia idea della lotta, mentre io che sono la persona meno aggressiva del mondo coltivo il combattimento marziale. Incongruenze della vita. Come la curiosità verso le cose umane che mi spinse al giornalismo finché m’accorsi che delle notizie in sé non m’importava troppo. Quel che volevo coglierne era il valore letterario. E così ho fatto lo scrittore.

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