FACCE DISPARI

Maria Luisa Iavarone: “Le famiglie assolvono i figli killer e la rieducazione (spesso) è un bluff”

Francesco Palmieri

Accademica e testimone. Parla la docente di Pedagogia Sperimentale e mamma di Arturo, che si salvò ma con lesioni permanenti per le quattordici coltellate che quattro minori gli infersero nel 2017. Senza motivo. "Mi preoccupa una comunità che non si autocondanna, un genitore che alza l’asticella della rivendicazione"

Più che un crimine grave, uccidere è considerato “uno sbaglio”. Chi lo commette chiede scusa “ma è pur sempre un ragazzo”, e non esagerino le famiglie delle vittime con le pretese di giustizia. Perciò il 19 marzo festa del papà, dinanzi al tribunale che ha condannato a vent’anni l’omicida del musicista napoletano Giovan Battista Cutolo, il papà del suo sicario minorenne ha minacciato gli amici della vittima mimando una pistola. Si dice a Napoli “cornuti e mazziati”, sicché suscitano persino il fastidio di qualcuno i genitori di chi è stato colpito senza ragione se riversano il dolore nell’impegno legale e civile. Come Daniela Di Maggio, mamma di Giovan Battista Cutolo. Come Maria Luisa Iavarone, mamma di Arturo, che si salvò ma con lesioni permanenti per le quattordici coltellate, una alla giugulare, che quattro minori gli infersero nel 2017. Senza motivo, solo perché in quel frangente passava di là.

 

Curiose coincidenze accompagnano i drammi: Franco, padre di Giogiò Cutolo, è un regista che lavorava a un docufilm sulla devianza minorile senza immaginare che un giorno ne avrebbe fatto spese il figlio né che stava intervistando i parenti del suo futuro assassino; Maria Luisa Iavarone è ordinario di Pedagogia Sperimentale all’Università Partenope e ignorava che avrebbe sofferto sulla pelle i fenomeni che trattava da studiosa. Ha appena partecipato alla manifestazione con cui è stato ricordato, ennesima coincidenza, il primo anniversario della morte di Francesco Pio Maimone, diciannovenne ucciso tra il 19 e il 20 marzo 2023 in una lite tra gang minorili. Ebbe la sfortuna di capitarvi in mezzo.

 

Come spiega che il padre di un assassino e i suoi amici non accettino una sentenza e minaccino?

È la manifestazione di un’amoralità diffusa, l’incapacità di comprendere il disvalore del gesto commesso e le sue conseguenze. Basti pensare alla linea difensiva adottata, che chiedeva l’istituto della “messa alla prova” per l’imputato: mi turba che possa essere soltanto ipotizzata per un reato così grave. È segno di un’autoassoluzione che la dice lunga sul contesto che ruota attorno a quel ragazzo.

  

Un iperbeccarismo apocrifo, un’enfasi sociologista, la retorica della comprensione a tutti i costi?

La giustizia deve avere scopo rieducativo, ma preoccupa una comunità che non si autocondanna, un genitore che invece di sentirsi responsabile per gli atti del figlio addirittura alza l’asticella della rivendicazione. È sintomo di una devianza che non si limita a chi commette il reato. L’assassino di Giogiò dopo il delitto, alle cinque del mattino, giocava a carte. Senza contare che già a tredici anni era stato autore di un tentato omicidio. Tutto normale per la sua famiglia.

   

Come recuperare queste vite?

Gli indici di recidiva dimostrano che i sistemi rieducativi funzionano male, ma la responsabilità a monte è di chi non ha agganciato i ragazzi prima del punto di non ritorno: famiglie in cui la violenza è normalizzata, insegnanti distratti, mancata vigilanza sociale.

  

Perché è scettica sulla rieducazione?

Per la qualità della terapia, che guarda più al reato che ai rei. Sarebbe necessaria una giustizia di precisione, che personalizza i percorsi rieducativi con misure anche molto alternative. Altrimenti è finzione. Un ragazzo in istituto impara a fare il pizzaiolo, ma sa che tornerà a delinquere. Ricordiamo il caso di Emanuele Sibillo, che aveva grosse risorse cognitive e recitò il ruolo del recluso redento per uscire prima e cominciare l’escalation delinquenziale a capo della ‘paranza dei bambini’.

 

Cosa intende per misure molto alternative?

Se è il caso, i minori vanno spediti in un’altra regione per recidere i fili maligni col territorio di origine. La devianza in Campania è peculiare perché è contigua al sistema criminale adulto. La maggioranza dei reati minorili è di tipo associativo: il sedicenne che va fuori Napoli a rapinare Rolex segue spesso le orme del padre, gode di relazioni e coperture maturate nella sua comunità. Chi delinque lo fa per mettersi in mostra presso il clan del quartiere, con l’aspirazione a essere arruolato.

 

C’è stato un aggravamento del fenomeno negli ultimi anni?

Al contesto degradato si sono aggiunti la diffusione di sostanze psicoattive, l’uso incontrollato delle tecnologie digitali e le ludopatie. I filtri critici sono allentati per mancanza della logica formale che si acquisisce nell’educazione primaria, i bambini sono spettatori di violenze e il frutto è una sincope di coscienza tra azione e conseguenze, tra causa e effetto di un comportamento criminale.

 

Il rap di Geolier fa bene o male?

Va bene dargli i premi, ma arruoliamolo in un progetto educativo sfruttando la sua popolarità. Che qualche canzone esprima un po’ di valori, che abolisca certi brani dai concerti. Non c’è solo il cash, i Rolex, la donna che è una bitch o la fine di un amore che è per forza lo schianto. Lo dico senza retorica.

  

Cosa le ha cambiato avere constatato le teorie sulla pelle di suo figlio?

È stata varcata la linea d’ombra e nulla sarà come prima, ma condire di umanità, con quel sangue, la riflessione scientifica, ha reso più efficace il mio messaggio. Non sono solo un’accademica, ma una testimone.

 

Cosa ha cambiato in suo figlio?

La prospettiva. Ha ripreso il bandolo della sua vita, si è laureato ma ha strutturato una certa diffidenza. Non gli hanno predato il portafogli, ma il futuro.

 

Nella loro vita a cosa aspirano i piccoli balordi?

A un paio di sneaker alla moda, all’iPhone nuovo, al barbiere una volta a settimana per un taglio perfetto.

 

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