Natalia Ginzburg (gettyimages)

Il salone del libro

La “vita immaginaria” non è virtuale, ma muove dentro di noi i fatti reali

Andrea Minuz

Un elogio della creatività, della potenza delle storie come luoghi immaginari, dell’inatteso e del meraviglioso in cui ci trascinano le opere che amiamo. “Vita immaginaria” evoca insieme l’amore per i libri e per i lettori

"È il titolo di un bellissimo libro di Natalia Ginzburg”, dice Annalena Benini presentando “Vita immaginaria”, cioè il tema del prossimo Salone del libro di Torino, il primo della sua direzione. Una lingua e non un paese ospite (il tedesco), un premio Pulitzer (Elizabeth Strout) che inaugura l’evento, un manifesto disegnato da Sara Colaone, coloratissimo e pop (finalmente), che mette subito una gran voglia di essere lì al Lingotto. È un elogio della creatività, della potenza delle storie come luoghi immaginari, dell’inatteso e del meraviglioso in cui ci trascinano le opere che amiamo. I libri certo, ma anche “il cinema, l’arte, le parole scritte e le voci”. “Vita immaginaria” evoca insieme “l’amore per i libri e per i lettori”, le due cose che danno senso al Salone, aveva spiegato Benini appena nominata direttrice. 


“Vite immaginaria” usciva esattamente cinquant’anni fa per Mondadori. Forse è uno dei libri meno noti di Ginzburg, ma anche il più ricco di sorprese, sguardi, punti di vista originali. Una raccolta di articoli con interventi su attualità e politica, riflessioni intime sulla memoria, l’infanzia, i figli, il caos e la bellezza di Roma, recensioni di film, come quella magnifica su “Amarcord” di Fellini, ritratti di amici e scrittori amati (Italo Calvino, Lalla Romano, Goffredo Parise, Elizabeth Smart, Elsa Morante), e alcune pagine formidabili su Israele, scritte a ridosso di Monaco, che lasciano scioccati per la loro angosciosa attualità. A questa raccolta di pezzi “scritti per ubbidire a un impegno”, Ginzburg aggiungeva poi un saggio inedito. Un piccolo esercizio di autobiografia che alla fine darà il titolo al libro. La scoperta della creatività, dell’ozio, del modo in cui prendono vita le storie inventate, quella “maniera insieme imperiosa e devota di muovere dentro di noi i fatti reali”. Qualcosa di misterioso. Qualcosa da decifrare. Oggi la creatività è invece sbandierata come un feticcio, trasformata in mestiere (“il creativo”) e in dipartimento ministeriale (la “Direzione generale Creatività contemporanea” del ministero della Cultura).

L’immaginazione deve vedersela con algoritmi, chatbot e intelligenza artificiale. Un Salone del libro che riparte dalla nostra “vita immaginaria” diventa allora prezioso. Perché la vita immaginaria non è la vita virtuale, il nostro “io digitale” schiacciato ormai sulle stesse ansie della vita reale. Non è quella dei multiversi e dei metaversi e non è neanche “l’immaginazione al potere”. Uno slogan a prima vista molto bello, diceva Calvino, “però poi ripensandoci è bene che l’immaginazione non prenda mai il potere: cioè non diventi mai parola d’ordine, programma obbligatorio”. La vita immaginaria è ciò che muove la nostra vita creativa, ricorda Annalena Benini, “che spesso indovina e predice quello che succede nella vita reale”. Affidarsi allora a Natalia Ginzburg per mettere insieme la lettura come impresa solitaria e le nostre vite immaginarie condivise: “Per molto tempo”, diceva Ginzburg “noi pensiamo di essere le sole persone al mondo ad avere una vita immaginaria. Tardi arriviamo a capire che è una cosa di molti, forse di tutti”.