Giulio Bollati (Ansa)

Il numero due

Il secondo Giulio dopo Giulio Einaudi fu Bollati, intellettuale e maestro

Alfonso Berardinelli

Il lavoro del "numero due della Einaudi" a cento anni dalla nascita. Guidò con acume e strategia anche la sua Bollati Boringhieri e ha influenzato profondamente il panorama editoriale italiano

Per circa trent’anni è stato “il numero due della Einaudi”. Il secondo Giulio dopo Giulio Einaudi. Così veniva denominato Bollati, del quale ricorre ora il centenario della nascita, e io non posso non ricordarlo. Dal 1983 fino al 1996, anno della sua scomparsa, Bollati è stato il mio editore. Volle conoscermi appena se ne andò dalla Einaudi, ormai affollata da persone che gli piacevano poco. Mi incoraggiò ed ebbe in me una fiducia che io non avevo. Prima al Saggiatore, dove si era per un po’ trasferito come direttore editoriale, poi per un paio d’anni di nuovo all’Einaudi, che era stata commissariata, infine alla Bollati Boringhieri, che sua sorella Romilda acquistò per lui, Giulio mi pubblicò quattro libri. E con lui ho collaborato per un po’ come editor letterario, benché di editoria capissi poco e mi mancava anche la passione. Mi ero dimesso dall’università sopraffatto da un attacco improvviso di noia accademica acuta, e quindi avevo bisogno di un nuovo lavoro.


Sono stati, quelli, gli anni più felici della mia vita. Dal 1983 al 1995 vivevo metà del mio tempo a Venezia come docente di Ca’ Foscari. Con Piergiorgio Bellocchio scrivevamo insieme la nostra rivista personale Diario. Furono Venezia e quella rivista che mi aiutavano a non sentirmi un professore. Del primo numero, 1985, pubblicai una pagina in cui definivo che cos’è un accademico, definizione con la quale certo non mi identificavo (“Dicesi accademico colui per il quale un’affermazione evidente e vera è meno vera e meno evidente se non è accompagnata da una nota a piè di pagina”). Mi ero allontanato da Fortini, su cui avevo scritto il mio primo libro, perché mi rimproverò di aver stroncato Asor Rosa e la pomposa banalità del suo linguaggio. In compenso avevo Bellocchio ed Enzensberger, anche lui pubblicato dal Saggiatore: un mio autore di gioventù con cui ero sempre più in sintonia e che considerò Diario una bella provocazione individualistica e satirica su cui riflettere.


Tornando a Bollati, ricordo che quando nel 1979 partecipai per la prima volta alla riunione plenaria dell’Einaudi sulle Alpi, Elsa Morante mi disse: “Cerca di parlare con Giulio Bollati, lì il più intelligente è lui”. Vedo che sto rischiando di essere sopraffatto dai ricordi ora che accanto alla ristampa del libro di Bollati “L’invenzione dell’Italia moderna” ricompaiono anche le sue “Memorie minime” con la prefazione di Claudio Magris che scrive: “La grandezza einaudiana deve certo tanto a Giulio Einaudi (…) ma dire Einaudi significa dire, per tanti versi, Giulio Bollati e il suo genio”. Giulio Einaudi andava a intuito, i libri li annusava. Bollati era invece un intellettuale, aveva in mente una strategia e secondo questa costruiva l’identità e la destinazione delle varie collane. Inventata e diretta da lui per molti anni fu “Il nuovo Politecnico”, titolo di collana che alludeva a una continuità con le storiche, omonime riviste di Carlo Cattaneo e di Elio Vittorini. Per “Il nuovo Politecnico” uscirono tra gli altri Marcuse, Lévi-Strauss, Gombrich, Kracauer, Adorno, Sweezy, Barthes, Ronald Laing, Susan Sontag…


Quando scrissi il mio capitolo sulla saggistica italiana da Francesco De Sanctis a fine Novecento per la storia letteraria curata da Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo, Bollati ridendo mi disse: “Ora finalmente so che cosa sono: un saggista!”. Usava spesso l’ironia, recitando a volte una timidezza forse in parte reale. Fra coloro che lo avevano conosciuto da vicino girava da tempo la voce che lui fosse un maestro nel creare a sorpresa momenti di speciale intensità comunicativa difficili da dimenticare: per esempio aneddoti epifanici in cui una verità inaspettatamente esplode. Lo si vede bene anche nello stile narrativo di “Memorie minime”, tra le quali spicca la sua visita a casa Leopardi, il suo amatissimo Leopardi (controparte complementare dell’illuminista milanese Pietro Verri). Per Leopardi, sottolineava Bollati, lo stile era l’uomo, lo stile era forma e sostanza morale di cui nessuna politica può fare a meno se vuole governare una società. Nel 1983, quando Bollati volle pubblicare la mia prima raccolta di saggi che avevo quasi dimenticato, “Il critico senza mestiere”, fece uscire sulla prima pagina di Repubblica una pubblicità con questa frase: “Il libro che ha segnato una svolta nella critica letteraria italiana”. Chiamai Giulio e gli dissi: “Ti ringrazio molto… Ma non so se è vero”. E lui: “Sarà vero”. 

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