Michela Murgia - foto Ansa

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Alla voce famiglia secondo Michela Murgia

Mariano Croce

Una rivoluzione dei legami affettivi? Forse non la troverete nel libro della celebre autrice deceduta lo scorso agosto. Per una lettura poco sediziosa di “Dare la vita”

L’adagio secondo cui “il sangue è più denso dell’acqua” compendia una cultura della famiglia millenaria, che riconosce le relazioni tra consanguinei come il nucleo portante di ogni collettività umana. L’intuizione è tanto semplice quanto diffusa: per quanto possiamo amare la nostra cerchia di amici, e preferirne la compagnia a quella di chiunque altro, non c’è legame più vincolante e intenso di quello che ci unisce a coloro da cui veniamo e a quanti da noi verranno. Un dato, questo, che a pieno diritto reclama l’aggettivo “naturale”, capace di descrivere al meglio il legame istintivo e inscindibile dell’essere umano con chi nelle vene ha il suo stesso sangue. Non stupisce che persino la Costituzione italiana definisca la famiglia come una “società naturale” (art. 29), quindi pilastro e fondamento della società politica – la quale, com’è noto, è un poco più artificiosa. 

Un tale convincimento è stato così pervasivo che, dai loro albori fino a tutta la metà del Novecento, le ricerche antropologiche sulla parentela non occidentale furono intese come lo studio del modo in cui le popolazioni indigene organizzavano i rapporti di sangue. Pur sotto altri nomi, ci si aspettava di ritrovare comunque e dovunque padri, madri e prole a fare da nucleo fondativo di quelle popolazioni, esattamente come avveniva nei paesi sedicenti avanzati. Nella seconda metà del Novecento, però, qualcosa cambiò tanto radicalmente da far dissipare quel convincimento come fosse stato un portentoso abbaglio

L’antropologo statunitense David M. Schneider (1918-1995), capostipite dei cosiddetti “nuovi studi sulla parentela”, diede luogo a un esperimento di notevole interesse. Nei suoi primi anni di attività, egli aveva convintamente aderito alla concezione tradizionale di cui sopra. Aveva quindi elaborato una sofisticata descrizione dei rapporti di parentela che sussistevano tra i membri della popolazione delle Yap, quattro ravvicinate isole negli Stati Federati di Micronesia. Un paio di decenni dopo, con un’energia tale da causare un violento scisma nella comunità degli antropologi, Schneider riprendeva in mano quello stesso materiale per offrire la più flagrante smentita di sé stesso e, insieme a sé, di un intero corpus cinquantennale di studi e ricerche. 

La sua conclusione era che, tra gli Yap, la parentela come la intendiamo noi occidentali non esisteva, e tantomeno la famiglia cosiddetta naturale. Nessuno dei modi tradizionali di costruire legami famigliari risultava dai resoconti offerti dai nativi, né si dava a vedere nei loro comportamenti ordinari. Insomma, non era il sangue a determinare i rapporti tra i membri dei nuclei fondativi della loro comunità. Un “padre”, ad esempio, poteva considerare come proprio “figlio” un individuo che lavorava la sua terra, non importa se questi fosse o meno della sua progenie. Né la coppia di maschio e femmina costituiva la cellula di base, bensì agglomerati più estesi, in cui i tradizionali compiti dei “genitori” venivano ripartiti secondo logiche molto diverse dalle nostre. Per decenni, secondo Schneider, gli antropologi occidentali avevano inconsapevolmente proiettato sulle popolazioni prese in esame le loro intuizioni più riposte e avevano collocato la famiglia nucleare dove non ce n’era neppure l’ombra. 

Sulla scia di tanto audace pionierismo, intere generazioni di antropologi hanno poi individuato e studiato moltissimi modi di costruire legami di parentela che non contemplano la trasmissione di materiale biologico. Non solo le forme classiche dell’adozione e dell’allattamento al seno, ma la condivisione del cibo, l’ospitalità prolungata, la proprietà comune della terra, fino alla nascita nello stesso giorno o la sopravvivenza a una prova rituale collettiva. Di recente, in un agile libro dal titolo La parentela: cos’è e cosa non è (Elèuthera 2018), Marshall Sahlins, una delle figure più illustri dell’antropologia novecentesca, chiosava deformando il proverbio richiamato in apertura: “La parentela è più densa del sangue”. Vale a dire, se il sangue, in alcune popolazioni, è il modo di fare famiglia, è perché la parentela elegge quel particolare oggetto sociale a suggello di un fenomeno ben più ampio: la mutualità dell’essere. 

La parentela, sosteneva Sahlins, non è né sangue né altro, ma il modo in cui le persone partecipano “alla reciproca esistenza”, ossia, “sono membri gli uni degli altri”. I parenti sono coloro senza i quali un dato individuo non sarebbe quel particolare individuo, e che compartecipano alla sua vita in modo da determinarne ritmi, significato e valore ultimo. Se così è, gli elementi che determinano rapporti di parentela sono molti, ben oltre l’intimità, la sessualità o la messa al mondo, come il supporto finanziario prolungato, il sostegno morale in fasi decisive dell’esistenza, la condivisione delle fasi iniziali o terminali della vita. 

Sulla base di conclusioni assai simili, studiosi interessati ad ampliare l’analisi delle forme di parentela nei paesi occidentali hanno sostenuto che di famiglie non fondate sulla biologia se ne trovano anche nelle nostre latitudini. Per certo, la procreazione rimane in occidente la forma privilegiata per costruire legami di parentela, ma sarebbe un errore credere che alla famiglia biologica spetti la qualifica di naturale, come se altre configurazioni ne rappresentassero una malriuscita imitazione. Questa la tesi di fondo del libro di Michela Murgia, Dare la vita (Rizzoli 2024), che dell’autrice costituisce altresì il messaggio testamentario a proposito di temi cruciali per l’esistenza di ciascuno come gli affetti e la filiazione. 

Per darne un affresco poco partigiano, occorre dissipare in avvio un possibile fraintendimento. Com’è noto, Murgia rivendica l’uso esplicito della parola “queer”, che aumenta il tasso di polemicità, nonché politicità, della sua proposta. Eppure, nella mia lettura, lo fa in modo meno sedizioso di quanto possa sembrare. Per come utilizzato in Dare la vita, “queer” è un termine che appartiene a tutti e a nessuno. E’ un aggettivo che vuole richiamare l’attenzione su un punto cieco: nei nostri desideri, come nei nostri affetti, c’è qualcosa di non categorizzabile, di non descrivibile con le parole del nostro linguaggio comune, e che dunque viene percepito come sghembo, in inglese “queer”. Questa bizzarra escrescenza sta lì a indicare che il mondo sociale produce un’infinita varietà di forme e che il diritto dello stato ne riconosce solo alcune, sempre troppo poche. Ecco: quelle forme un poco strane e non del tutto dicibili vogliono definirsi “queer” per denunciare il mordace residuo di esclusione che caratterizza anche le più progressiste tra le società liberal-democratiche

Quando all’aggettivo “queer” si fa precedere il sostantivo “famiglia”, si vuole dar risalto a quei fenomeni diffusi di convivenza e coabitazione (caratterizzati o meno da legami effettivi o rapporti intimi) in cui alcune persone decidono di stringere un patto duraturo di mutua dipendenza e di responsabilità reciproca, e auspicano che lo stato abbia la creanza di prenderne atto perché le sue istituzioni possano intervenire nel momento in cui qualcosa di imprevisto dovesse accadere: una morte, una malattia o la più semplice e sempre possibile voglia di chiudere quell’esperienza. 

Insomma, il lemma “famiglia queer” non si ricollega necessariamente alle corrosive polemiche sulla sessualità, sul genere o sulla gestazione per altri. L’avverbio “necessariamente” è d’obbligo, perché, com’è comprensibile, del tema della famiglia queer può ben farsi un’arma politica radicale, tesa cioè a mettere in questione i nostri assunti più sedimentati di cosa siano gli affetti umani, e con loro il genere e la sessualità. Nondimeno, sono convinto si presti a essere declinato come tema che non comanda settarismi né obbliga a prese di posizione estreme. 

In questa declinazione più ecumenica, le famiglie queer indicano modi alternativi di organizzare gli affetti nella piena condivisione di diritti e responsabilità. Si tratta di configurazioni famigliari non necessariamente fondate sull’unione sessuale di due coniugi e/o non limitate nel numero di partner o figure genitoriali e/o distribuite in spazi non sempre contigui. Sono composte da persone che organizzano la loro esistenza collettiva secondo regole che non seguono le linee della più tradizionale coppia unita dall’amore esclusivo e romantico, mentre, nei riguardi dei bambini, qualora presenti, gli adulti decidono di ripartirsi specifiche funzioni, come ad esempio la generazione, l’educazione, la cura quotidiana. 

Murgia tratta di tutto questo sotto forma di schizzo autobiografico, commisto a riflessioni teoriche a portata di lettore inesperto. E benché non credo apprezzerebbe questo mio approccio deflattivo nei confronti della carica erosiva del suo libro, a me pare che, già dall’apertura, ella offra una visione del queer del tutto consonante con quanto ho scritto sopra. Murgia era infatti una donna che non intendeva fare pubblicità del proprio orientamento sessuale e che anzi prendeva posizione contro la politica del coming out: “Capisco quindi la diffidenza di chi, in alcune occasioni, mi ha chiesto di passare attraverso il coming out per acquisire diritto di parola in certi spazi: cioè di dimostrare pubblicamente un minimo di compromissione personale fra il tema in questione e la mia esperienza”. E conclude: “non necessariamente noi persone queer ‘dobbiamo dirci gay’, per esempio, o bisessuali, né trovare un’altra definizione permanente nello spettro della sessualità e dell’amore né normativo né binario, per poter esistere nella soglia salvifica e sempre un po’ selvatica della queerness”. Torna così il significato di queer cui facevo cenno sopra: il termine non vuole racchiudere nessuno in nessuna categoria, bensì segnarne la parziale dissonanza con le categorie esistenti. Se così è, anche chi non è né gay, né lesbica, né bisessuale potrebbe dirsi queer nella misura in cui fa esperienze o ha desideri che non corrispondono del tutto a nessuna categoria chiusa. 

Del pari, il ritratto che l’autrice fa della sua famiglia, certo non convenzionale, è tutt’altro che da terrorista del gender: “una famiglia fatta di legami altri”, ossia non biologici, in cui Murgia era “madre d’anima”. I figli d’anima, scriveva nell’incipit di Accabadora, sono “i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra”. Si rifaceva così a una tradizione molto risalente, in cui i legami non genetici godevano di pari dignità rispetto a quelli fondati sulla trasmissione di materiale biologico: per proteggere minori in difficoltà, si ricorreva non agli istituti, pochi e inefficienti, ma alle relazioni familiari allargate o alle reti di comunità, che operavano con maggiore efficacia e nell’interesse dei minori. 

Insomma, Dare la vita vuole denunciare la schisi che esiste tra la famiglia biologica, sostenuta dallo stato con forza di legge, e alcuni fenomeni minoritari ma tutt’altro che marginali, in cui i legami affettivi non si radicano nel sangue. E se si lasciano fuori termini controversi come “patriarcato” o (se proprio non lo si digerisce) “queer”, la sua lettura porta a meditare su una domanda che non credo abbia partito: c’è una qualche ragione per cui lo stato debba negare il riconoscimento giuridico a, poniamo, due amici che vogliono condividere gli ultimi decenni della loro vita, o una coppia che sostiene le spese di un ragazzo generato da altra coppia, o una dozzina di signore che affittano un intero edificio per organizzare la loro vita collettiva? Detto altrimenti, perché non allargare lo spettro delle configurazioni familiari in cui non c’è né sangue né intimità? Leggere Murgia aiuta a fornire una risposta tutt’altro che radicale e divisiva: il riconoscimento giuridico di configurazione alternative sotto forma, ad esempio, di contratto tra soggetti privati potrebbe fornire garanzie ai membri di tali configurazioni nel caso dovessero insorgere problemi (liti, malattie, morte) senza con ciò minare né il valore simbolico né la fattuale preminenza di modi più tradizionali e noti di fare famiglia. 

Non sfuggirà che nel libro di Murgia c’è assai di più: un credo politico inevitabilmente di parte, un richiamo a valori tutt’altro che universali, una difesa della gestazione per altri che a molti sa di reato penale – benché, va detto, l’autrice lo faccia in modo tale da far emergere i suoi molti dubbi sulle possibili insidie della pratica in questione qualora dovesse trovare spazio nell’ordinamento giuridico italiano. Insomma, Murgia rimane una figura scientemente scomoda, contraddittoria, che non sollecita pacificazioni postbelliche. E su tutto questo, ogni lettore potrà giudicare col sovrappiù di solidarietà o di avversione che gli importa la sua visione etica e prospettiva politica. Ma il cuore della questione toccata in Dare la vita pulsa della stessa intensa energia con cui ancora oggi i sostenitori dei nuovi studi sulla parentela sembrano voler negare la priorità e l’ubiquità della genetica come fonte degli affetti più profondi. E se è vero che questi antropologi sempre troveranno loro colleghi pronti a documentare l’opposto, converrà a ciascun fronte della contesa non chiudere la porta al dubbio. 

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