Emoke Baráth e Aleksandra Olczyk nel “Flauto magico” al Teatro dell’Opera di Roma (foto Fabrizio Sansoni-Opera di Roma 2024) 

Un flauto ci salverà. Mozart e il dono dello stupore

Damiano Michieletto

“Die Zauberflöte”, per chi è smarrito e disarmato nell’affrontare le ombre della vita

Il presidente della Repubblica, nel suo ultimo messaggio di fine anno, si è rivolto ai giovani: “Cari ragazzi, ve lo dico con parole semplici: l’amore non è egoismo, dominio, malinteso orgoglio… l’amore è dono, gratuità, sensibilità”. 


Con la sua chioma bianca e il suo stile misurato e nobile, il presidente Mattarella sarebbe un perfetto Sarastro, il personaggio che incarna l’emblema della saggezza nell’opera Il flauto magico di Mozart. Sarastro è in competizione con Astrifiammante, che si pone all’opposto come l’incarnazione dell’oscurantismo dogmatico. Il loro conflitto dà luogo alla vicenda: una grande favola allegorica delle forze che si contendono la formazione dell’individuo. 

  

Astrifiammante è la madre di Pamina, rappresenta la dottrina che non può essere messa in discussione e procede per assoluti, inamovibile

  

Nel Flauto magico è di giovinezza che si parla: il giovane principe Tamino e la sua giovane amata Pamina sono infatti i protagonisti di questa favola scritta da Emanuel Schikaneder.

 

Chi riesce a plasmare l’immaginario di un giovane  ne otterrà l’approvazione e il controllo, cosa che le moderne agenzie pubblicitarie conoscono molto bene. Così come lo sanno i ministri che si occupano di istruzione: quello che passa sui banchi di scuola determina l’identità e la consapevolezza dei giovani. 
Tamino e Pamina sono giovani e inesperti della vita. Sono freschi, stanno ancora appesi al ramo. La condizione di essere appesi è nella natura stessa della parola “dipendenza”: pendere verso qualcosa, cioè essere attaccati, essere appesi a qualcuno. Sono due ragazzi che devono superare delle prove per raggiungere la maturità. E’ la trama di quello che un moderno sceneggiatore definirebbe un coming of age, cioè una vicenda in cui i protagonisti scoprono la loro vera natura affrancandosi da una situazione di dipendenza per raggiungere la libertà, cioè l’indipendenza.

 

Astrifiammante è la madre di Pamina, rappresenta la dottrina che non può essere messa in discussione e procede per assoluti, inamovibile, inscalfibile. Come in un tela invisibile, meticolosamente tessuta da un ragno, Pamina è preda senza sapere di esserlo e dipende dalla madre la quale ricatta moralmente la figlia provocando in lei un senso di colpa e di vergogna.  Quante volte nella vita, soprattutto da bambini e adolescenti, abbiamo vissuto una situazione simile a quella in cui si trova Pamina. Sentirsi in difetto, non riuscire a soddisfare le aspettative dei genitori, sentirsi sotto pressione per le richieste che vengono espresse oppure anche non espresse, ma intuite: un non-detto che arriva torbido e pesante come un masso. Si tratta di una condizione psicologica che può portare all’annientamento della fiducia in sé stessi e alla dipendenza patologica.
Un altro personaggio della letteratura operistica, lontanissimo da queste atmosfere, vive però la stessa dipendenza e ricatto affettivo: si tratta di Don José che finirà per uccidere Carmen. Da dove deriva infatti il suo gesto finale, il femminicidio della donna che dice di amare? Che rapporto ha  Don José con la madre, che nell’opera di Bizet lo perseguita, inviandogli denaro e lettere colme di apprensione?… 


Pamina è la destinataria di una delle melodie più famose della storia dell’opera lirica: un’aria spettacolare, elettrificante: “Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen”. Se questo titolo non vi dice nulla, provate a digitarlo su YouTube, ad esempio, e dopo pochi secondi scoprirete di averla già sentita da qualche parte (provare a ricordarsi dove è un bell’esercizio…). Il significato del titolo è: “La vendetta dell’inferno ribolle nel mio cuore”. Ora, è proprio la madre Astrifiammante a rivolgersi alla figlia con queste parole che incutono immediatamente spavento e timore. Ed è infatti esattamente quello che la madre vuole ottenere.

  

È interessante e teatralmente utile provare a sintetizzare il senso di un’aria lirica o di un monologo teatrale utilizzando un verbo. Uno solo

  
E’ interessante e teatralmente utile provare a sintetizzare il senso di un’aria lirica o di un monologo teatrale utilizzando un verbo. Uno solo. E’ un modo per riuscire poi a trasformare la parola poetica in un vettore, dandogli una direzione che sarà sviluppata sulla scena attraverso le giuste indicazioni da offrire agli interpreti (si potrebbe perciò dire che questo è in definitiva il lavoro di un regista teatrale: trovare i verbi giusti…).    In questo caso il verbo potrebbe essere: minacciare, ricattare.  Da qui si può partire per provare a rendere tridimensionale la musica. Astrifiammante minaccia e ricatta la figlia ordinandole di uccidere il suo rivale (Sarastro).   Se la figlia non ubbidirà le conseguenze saranno terribili: “Non sarai mai più mia figlia, sarai abbandonata, sarai ripudiata. Per sempre”. Non ti amerò più se non farai quello che io mi aspetto da te… In quel “se” c’è un ricatto che crea la dipendenza e tiene imprigionata la figlia. 


Riuscire a disubbidire alla madre permetterà di scindere quella dipendenza, essere in grado di non pendere più ma ristabilire un equilibrio, una possibilità per Pamina di stare sulle sue proprie gambe. Ed è quello che Pamina farà, così come Tamino riuscirà a superare altre tappe nel percorso di formazione e di crescita.  “Voi penetraste attraverso la notte. La fermezza ha vinto!”: in questo modo il Coro sancisce l’happy-end finale. 

 

Il bosco è da sempre uno dei luoghi simbolici in cui avviene lo smarrimento. Dalla selva oscura di Dante, alle foreste estive dell’Orlando furioso e su fino alle liriche di Caproni, tutti  “Into the woods” come il titolo del musical di Stephen Sondheim che mescola varie trame favolistiche accomunate dal fatto di svolgersi tutte dentro a un bosco. Nel bosco dimora il pericolo e l’eccitazione.  E’ in un bosco che si perdono infatti gli amanti shakespeariani del Sogno di una notte di mezza estate o in cui si rifugia Rosalinda, la protagonista di Come vi piace: nella foresta di Arden avviene il suo coming of age…  


Non a caso, anche qui, il sipario de Il flauto magico si apre su una foresta, dove Tamino si smarrisce per iniziare poi a ritrovare se stesso, anche se il pericolo è grande perché la sua faretra non contiene più frecce. E’ la condizione di una giovinezza che deve attraversare lo smarrimento per arrivare alla maturità. E’ la condizione di uno stare nell’oscurità, senza vie già tracciate, senza sentieri battuti, dove pietre e radici creano l’inciampo, dove spavento e paura non possono essere evitati. Ma dove una piccola luce può acquisire un grande significato. Dove una parola o un gesto, diventano preziosissimi. Nel viaggio, come in tutte le favole che si rispettano, si incontrano facce strane e corpi mostruosi. In questo caso ad esempio il nerissimo Monostatos o il coloratissimo Papageno (di cui Schikaneder stesso fu anche il primo interprete sul palcoscenico). Incontri che cambiano la vita.

 

Per penetrare attraverso questa notte, i nostri eroi hanno bisogno di un oggetto magico, in grado col suo suono di fargli ritrovare la strada smarrita nel bosco. Sono simili a Pollicino, che ritrova la via con i suoi sassolini bianchi. Ma loro non devono fare ritorno a casa, devono proseguire e andare oltre, attraversare la sofferenza.
Il flauto magico parla dunque di noi, quando siamo persi e smarriti.  E’ la condizione in cui, prima che sia troppo tardi, proviamo a riacciuffare noi stessi nonostante i limiti, gli insuccessi, la vergogna, le paure, la frenesia quotidiana, la mancanza di amore.   Prima che sia troppo tardi un suono ci viene a rincuorare, cioè a dare coraggio, il coraggio necessario per non arrestare il passo, per non sentirci vinti e sconfitti quando il dolore e la tristezza sembrano l’unica prospettiva che abbiamo davanti.

   

Se ognuno potesse avere un flauto magico in tasca il mondo sarebbe migliore. L’animo umano sarebbe temprato dall’armonia

  

Se ognuno potesse avere un flauto magico in tasca il mondo sarebbe migliore. L’animo umano sarebbe temprato dall’armonia. O se potessimo avere in tasca una piccola scatola con dei campanelli che risuonano limpidi e luminosi, come quelli di Papageno, per scacciare i mostri che ci portiamo dentro e farci uscire dall’isolamento. “Potesse ogni brava persona trovare simili campanelli!”…  I campanelli del glockenspiel suonano per risvegliarci dal torpore, per dirci che una via c’è e se non c’è sarà stupendo riuscire a tracciarla. Per riacciuffare sé stessi.


Il suono del flato è il soffio di una parola amica, da consegnare a chi è smarrito e si ritrova come Tamino dentro al buio e non sa come venirne fuori. E’ la guida di cui abbiamo bisogno, il maestro che dobbiamo riconoscere, in un’epoca in cui questa parola sembra fuori moda perché tendiamo a livellare ogni cosa e ad appiattirla in nome di una falsa democrazia dove il “magis”, cioè il superiore, sembra non abbia più diritto di esistere. Così nelle scuole di oggi assistiamo ad alunni che non riconoscendo più alcuna autorità, si atteggiano senza rispetto e senza disciplina, o genitori che vogliono prendere il posto dei docenti, in una confusione che nulla offre all’educazione dei giovani. Invece riconoscere un maestro, una superiorità, permette di innescare un processo di crescita in grado di alimentare l’aspirazione di cui abbiamo bisogno.


Il modello proposto da Sarastro non è una comoda via verso il successo, ma un viatico verso la formazione di sé, senza scorciatoie e senza artifici. L’intelligenza è sempre umana, aldilà della tecnica che viene adoperata. Ed è sempre l’uomo che si celebra a teatro. 

   

La saggezza è questo: la capacità di non considerare come assoluto il proprio punto di vista. Ecco l’insegnamento che Sarastro vuole offrire

  
La bellezza dell’arte è il suo raccontare la vita. Un fatto estetico e sociale perché avviene ogni volta secondo modalità e circostanze diverse, inedite. Un piccolo movimento nel punto di vista per trasformare la realtà.  Alla Pinacoteca di Brera “Il Cristo morto” del Mantegna è li a dimostrarlo: la stessa storia, il ritratto di un cadavere visto già mille volte, ma il punto di vista cambia e con quello tutta la prospettiva con cui si vedono e si giudicano le cose. Spostando il punto di vista la realtà risulta diversa, ma per ottenere questo piccolo movimento bisogna essere in grado di un ampio movimento mentale. La saggezza è questo: la capacità di non considerare come assoluto il proprio punto di vista. Ecco l’insegnamento che Sarastro vuole offrire.


In questa disposizione al movimento risiede la possibilità di un incontro, di aprire una trattativa col mondo, di fare un viaggio.  Come Tamino e come Pamina. Anche se nell’affrontare l’oscurità della foresta ci si ritrova smarriti e disarmati, con una faretra vuota e un serpente in agguato pronto a colpire, perché solo chi è disposto a cambiare punto di vista e mettersi in viaggio può incontrare facce nuove e imparare nomi strani, come Papageno o Monostatos, e ricevere il dono dello stupore. E’ l’augurio che Mozart ci consegna: la potenza della musica come disvelamento e definitivo incanto della vita. Per vivere secondo armonia.


 

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