Screenshot - Edvard Munch Paura  

La recensione

Un'ossessiva fedeltà all'ignoto. Il pericoloso tuffo di Strindberg nel proprio Io

Elisa Veronica Zucchi

Torna in libreria la trilogia “Inferno”, romanzo autobiografico, una confessione scritta in prima persona dal suo autore che, consegnato alla solitudine. guarda attraverso un vetro le vite degli altri

L’inquieta esaltazione che segna l’intera opera del grande drammaturgo e scrittore svedese August Strindberg è incantatoria. La fucina psichica in cui arde la sua ispirazione fa luce sull’invisibile, scontrandosi con il popolo degli spiriti e decifrando corrispondenze e apparizioni che rivelano sintassi segrete. Molto si è detto e scritto (ricordiamo Karl Jaspers) sulla ipotetica pazzia dell’autore del Sogno, scandinavo come Ibsen (schizofrenia? nevrastenia? delirio di persecuzione?), ma quel che più conta è che la sua opera è impensabile senza l’ossessiva fedeltà all’ignoto e alla ricerca delle sue manifestazioni. Strindberg scrive con l’ebbra lucidità di una veglia estatica, spingendosi fino alla soglia della follia. L’eccesso di visione debilita i nervi a causa della sua potenza e oscura la scena dei fenomeni, immergendo il reale nella sua sostanza peculiare, ovvero nell’abissalità dei sogni e nell’intuizione dell’essere sognati. 


Inferno,  presentato nella sua integrità, ossia come trilogia (Inferno, Leggende e Giacobbe lotta, negli Adelphi, 444 pp., 15 euro) è, secondo la definizione stessa dell’autore, un “romanzo occulto” e, come nota il curatore Luciano Codignola nel saggio incluso, è “un libro più forte dei suoi lettori”. Scritto nel 1897 a Lund, in Svezia, è un romanzo autobiografico e mitopoietico, scritto in prima persona. Inferno sembrerebbe una confessione, il grido di un dannato, di uno spirito in rivolta che guarda attraverso il vetro le vite dei focolari domestici, consegnato a una solitudine quasi irredimibile, nell’inferno che è metafora di questo mondo. Strindberg si tuffa pericolosamente nel proprio Io, è un Giacobbe alle prese con l’Angelo e un Giobbe predestinato: “Beato l’uomo che Dio castiga” (Giobbe, 5, 17).


Abbandonato dalla seconda moglie, Frida, che ritorna in Austria dalla figlia Kerstin, Strindberg si reca a Dieppe, presso amici svedesi e, dopo un ricovero in un ospedale parigino, si stabilisce a Parigi presso l’Hôtel Orfila, quivi condotto dalla “mano dell’invisibile”. Povero, forte bevitore, studioso di scienza e alchimista,  cerca ossessivamente di ricreare l’oro. Deve essersi consumato un delitto, se l’autore di Verso Damasco chiama in causa gli “spiriti correttori” di Swedenborg e ne è perseguitato. Si avvicina alla mistica teosofica del compatriota attraverso Séraphita di Balzac e grazie alla suocera e alla zia, studiose d’occultismo; ne è profondamente segnato, tanto che elegge l’autore di Arcana coelestia a angelo custode e interprete di sé stesso: “Sono un eletto, l’ha detto Swedenborg, e rassicurato dalla protezione dell’Eterno, provoco i démoni”.

Che cosa sono le angosce, le palpitazioni, il senso di soffocamento, le sensazioni di “cintura elettrica” di cui soffre lo scrittore? Non si tratta della punizione che le “potenze” infliggono a colui che vìola l’interdetto, peccando di tracotanza (hýbris)? Non straziano, invero, un innocente, dotato di un particolare realismo? Colui che narra è veramente separato dal mondo, quello dei visibili, e perciò dei visibili diviene il capro espiatorio. Tuttavia, lo slancio verso una espiazione definitiva (già compiuta in Cristo) rimane monco: quanto più si rivela, tanto più il “labirinto senza uscita” si oscura. È proprio il sole a mezzogiorno di Nietzsche, di cui Strindberg è appassionato lettore, che splende nel cuore risvegliatosi alla vita terrestre. 
 

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