L'astronomico Blanqui

Luigi Azzariti-Fumaroli

Arriva in libreria per Adelphi il "diario" dal carcere dello scrittore francese, recluso per aver partecipato ai moti comunardi del 31 ottobre 1870

«Con mia grande disperazione non ha mai voluto prestare attenzione al mio sventurato “L’eternità viene dagli astri”», protestava Auguste Blanqui il 3 gennaio 1872, scrivendo alla sorella, ignara delle ragioni che l’avevano portato a dedicare ogni energia residua alla stesura di quel manoscritto: difendersi dal «dragone» (forse lo stesso che, per gli Orfici, simboleggiava Chronos, il Tempo) pronto ad avvolgerlo fra le sue spire, nella solitudine della cella del bretone Fort de Taureau. Qui, questa volta (su settatacinque anni, quarantatré ne trascorrerà in carcere), Blanqui era stato recluso per aver partecipato ai moti comunardi del 31 ottobre 1870. D’altronde, che quei 21 piccoli rettangoli, formicolanti d’un grafismo minutissimo, una volta «stereotipati in bronzo», potessero essere interpretati come un onirismo ispirato dalla cattività fu presto confermato dalle prime recensioni che ne accompagnarono la pubblicazione, il 20 febbraio 1872, tre giorni dopo la condanna dell’autore all’ergastolo.


Il desiderio di unirsi alle vastità siderali era già stato di Hölderlin: segregato nella Torre di Tubinga per la sua insania, sognava di essere una cometa, «poiché hanno la rapidità degli uccelli, fioriscono in fuoco e sono in purezza come fanciulli». Ma Blanqui, fin dalla rivoluzione del luglio 1830, non avrebbe voluto far altro che «infilzare i romantici». Il più importante dei capibarricata di Parigi non avrebbe mai ceduto alla tentazione della dismisura del Tutto. Anche per questo Walter Benjamin, che pure aveva riscattato la sua “ipotesi astronomica” dall’eclissi dovuta ad una di quelle rettifiche cui procede la storia a cospetto dei marivaudages parascientifici, l’ha infine liquidato come il corifeo di un nichilismo “senza scopo finale”. Il materialismo antropologico, imbevuto di Romantik, del critico tedesco nulla poteva di fronte al materialismo duro e puro di Blanqui. Quello stesso materialismo che aveva trovato, grazie alla spinta eversiva che l’innervava, manifesta ammirazione in Benito Mussolini. Il motto di Blanqui “Chi ha del ferro ha del pane” campeggiava, nelle prime copie del Popolo d’Italia, alla sinistra della testata, a dimostrazione di come, nel volgere di qualche decennio, un certo anarco-comunismo, non disgiunto da un insurrezionalismo militarista, si fosse o mutato in «un brontolio simile piuttosto alla flatulenza che alla sovversione», ovvero si fosse tinto di nero, in un fermento di squadrismo a base di manganelli.


Un materialismo pertinace, in cui, come in ogni ideologia, la verità coincide con quanto esso propone ed il falso con quanto esclude, sembra invero pervadere anche “L’eternità viene dagli astri”,  la cui ispirazione è da ricercare non soltanto in Laplace, ma nella genealogia del “grande materialismo”, a cominciare da Democrito, Epicuro e Lucrezio. Già Borges aveva indicato nel pensiero del filosofo di Abdera l’antecedente cui guardare per comprendere l’idea di Blanqui circa la pluralità di mondi uguali e dissimili nell’infinità spazio-temporale. La condanna che inchioderebbe l’umanità ad una infinita ripetizione di eventi echeggerebbe infatti non già l’eterno ritorno di Nietzsche, bensì la fisica delle fluttuazioni propria dell’atomismo classico: l’aleatorio spostamento degli atomi che questo aveva ipotizzato implicava che, a fronte d’un’invarianza globale, tutti i corpi turbinassero in modi e tempi non prevedibili, sicché a dominare il cosmo sarebbe stata non già l’eternità imperturbabile, ma il caos fenomenico del caso. Lo scritto astronomico di Blanqui potrebbe perciò leggersi – ha osservato Fabrizio Desideri, curandone la prima edizione italiana, nel 1983, presso Theoria (poi ripresa da SE) – come «il tentativo di trovare nel cosmo l’“anarchie regulière” che definiva il suo comunismo».


Nondimeno, quanto permette di rilevare una lettura del testo di Blanqui (appena ripubblicato da Adelphi, con una postfazione di Ottavio Fatica, nella versione di Raffaele Fragola) attenta alla forma straniante di una lingua prestata alla tortuosa e ostinata contemplazione dei corpi celesti, è, fors’anche prima d’ogni sua connotazione storico-ideologica, la sua appartenenza al novero dei testi letterari, almeno se li si campiona in ragione della loro capacità di aggiornare la sensibilità linguistica del lettore con procedimenti che perturbano le forme abituali della sua percezione. È quanto traspare in particolare da quelle pagine in cui Blanqui si sofferma a considerare le comete, «nullità chiomate» che varcano l’universo e si disgregano, rivelandosi soltanto attraverso l’enigmatico interrogativo che pongono riguardo alla loro natura. Esse «non sono niente, non fanno niente, non hanno alcun ruolo»: si limitano a danzare oltre l’antimateria, là dove non si ha patria dentro il tempo. Perché soltanto nel «vivaio delle comete», nella cuna ove nasce una luce cosmica ed una infinita deriva, l’«eternità invecchia».


 

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