Rocky Marciano (sulla destra) contro Roland Roland La Starza (foto Olycom)

in libreria

Il suo pugno è come un blues. Il Rocky Marciano di Marco Pastonesi

Giovanni Battistuzzi

Il pugile italoamericano chiuse la sua carriera da imbattuto: 49 incontri disputati, 49 vinti, 43 per ko. Un libro tra pugilato e musica in quindici round e dodici battute

Era mica un bel vedere Rocky Marciano. Si muoveva poco e nemmeno troppo bene, non aveva allungo e per questo cercava sempre di accorciare le distanze, farsi sotto, arrivare al corpo a corpo. Non aveva grazia, né nel fisico né sul ring, nemmeno l’imperfetta armonia di Jersey Joe Walcott, che non era il massimo vederlo boxare – ma questo perché noi si è visto  Muhammad Ali –, ma quantomeno una sua euritmia ce l’aveva e il suo corpo fletteva con violenta eleganza. C’aveva nulla di tutto questo Rocky Marciano, ma Rocky Marciano mandò al tappeto Jersey Joe Walcott, ko alla tredicesima ripresa, togliendoli il titolo di campione del mondo dei pesi massimi. Un’anticipazione di quanto fece Joe Frazier con Muhammad Ali: “La degna conclusione degli anni Sessanta”, scrisse Hunter S. Thompson, “Ali battuto da un hamburger umano”.

Rocky Marciano vinse il titolo di campione del mondo il 23 settembre 1952 a Filadelfia. Lo difese sei volte contro Jersey Joe Walcott (nella rivincita), Roland La Starza, Ezzard Charles (in due occasioni), Don Cockell e Archie Moore, il giorno del suo ultimo incontro. Era il 21 settembre 1955, Rocky Marciano chiuse la sua carriera da imbattuto: 49 incontri disputati, 49 vinti, 43 per ko.

Era potente e resistente Rocky Marciano. Potente nella resistenza. Aveva la rara dote di dare il suo meglio in sofferenza. Più soffriva, più il suo talento era eccezionale e più sembrava crescere la sua forza. Quasi non sentisse la fatica, il dolore, il peso dei colpi. Era come certo blues, Rocky Marciano. Certo blues che più sgorga dall’animo straziato e disperato, più arriva diretto e piacevole all’orecchio. Quasi a donare speranza, a rallegrare la nostra tristezza con la tristezza riparatrice. C’ha ragione Marco Pastonesi nel suo Rocky Marciano blues (66thand2nd, 168 pp. 17 euro), Rocky Marciano è stato come un blues. Sul ring soprattutto, fuori dal ring in parte. O forse del tutto anche lì, perché in fondo anche la sua vita è finita come sono finite quelle di molti cantanti e musicisti blues, con un grande botto. In modo triste e disperato come certe canzoni blues. 

Marco Pastonesi ha raccontato la storia del Rocky Marciano uomo e boxeur in quindici round, quanti ce ne sono su un ring. Quindi round che sono quindici storie che poi sono una storia unica, quella di Rocky Marciano. Li ha intermezzati con dodici battute, quante ce ne vogliono nella struttura metrica della musica blues, dodici intermezzi che c’entrano e non c’entrano con Rocky Marciano, ma con il pugilato sì, eccome. Perché non è poi così diverso la boxe dal blues, lo racconta bene Marco Pastonesi nel libro.

Ha alternato i pugni presi e soprattutto dati da Rocky Marciano – pugni dinamitici, più deflagranti che roboanti – alle note di Bessie Smith, Robert Johnson, John Lee Hooker, Dizzy Gillespie e Miles Davis. Piccoli attimi d’attesa, fughe dalla storia principale, nessuna fuga bidone però, il gruppo le riprendeva sempre. Piccole fughe che però dilatano il libro, lo mettono in pausa e spostano il play sullo stereo o su Spotify. Suonano gli intermezzi, mentre la storia invece le suona, come le suonava Rocky Marciano. Che forse non era bello da vedere, non lo era affatto, ma alla fine li mandava tutti al tappeto. Ko.

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