Il raffreddore di Sinatra

Scrisse il ritratto di Sinatra e cambiò il giornalismo americano. Ora Gay Talese svela come ci riuscì

Marco Bardazzi

A 91 anni il padre del new journalism è diventato per i giovani cronisti il racconto che raccontava. Un book party a Manhattan per celebrare lui e quell'articolo ancora studiato nelle scuole di giornalismo

Gay Talese non ha il raffreddore, ma ormai parlano di lui come fosse Frank Sinatra. E lo scrittore sta al gioco, con un sorriso sornione sotto l’inseparabile fedora, nei panni di chi sa di essere tra gli ultimi testimoni di un’epoca di cui presto resteranno solo i libri, i film e i racconti d’autore su riviste patinate custodite nelle emeroteche. Un book party a Manhattan di quelli come si facevano negli anni Ottanta, con un cast di ottuagenari celebri del mondo letterario, ha festeggiato qualche giorno fa l’uscita di “Bartleby and me”, il nuovo libro del novantunenne autore italoamericano. Una collezione ricca di memorie della sua antica carriera giornalistica, a partire da una serie di retroscena inediti su come nacque “Frank Sinatra ha il raffreddore”. Quel lunghissimo articolo uscito nell’aprile 1966 su Esquire è ormai un pezzo di storia. In America – e non solo – è considerato il più bel profilo di una celebrità che sia mai stato scritto su una rivista, lo si studia nelle scuole di giornalismo ed è stato pubblicato più volte anche in forma di libro (in Italia per opera di Bur Rizzoli). 


Merito anche di Tom Wolfe. Quando l’autore del “Falò delle vanità” inventò il concetto di new journalism, inserì Talese nell’antologia dei protagonisti del movimento, oltre a sé stesso e a pezzi da novanta della scrittura come Truman Capote, Norman Mailer e Hunter S. Thompson. Una selezione che fece diventare mitologici i ritratti di Talese degli anni Sessanta, con l’articolo su Sinatra che si trasformò in una sorta di manifesto citato e copiato da tutti.  Il racconto in stile romanzato, a cavallo tra giornalismo e letteratura, ha segnato il successo del new journalism nel corso degli ultimi decenni, ma si potrebbe argomentare che ha anche generato tanti mostri. Talese poteva scrivere decine di pagine su Sinatra guardandolo da vicino e costruendo un ritratto senza mai intervistare il protagonista, ma lo faceva parlando con decine di fonti e con un rigore assoluto quando si trattava di verificare fatti e citazioni. Con il passare del tempo, la tentazione per i giornalisti di imitare Wolfe, Talese o Capote ha fatto spingere l’acceleratore molto spesso in direzione del romanzo e della fiction, invece che del reportage “scritto bene”. Lo stesso Talese lo ha denunciato nel corso degli anni, diventando un po’ freddo anche rispetto al concetto di new journalism per le derive che, a suo dire, lo avevano portato a troppe invasioni di campo nel mondo della letteratura. 


Ma al suo party al Waverly Inn, nel West Village, l’anziano scrittore-giornalista ha interpretato con ironia la parte che un tempo spettava ai protagonisti della sua prosa. Se negli anni Sessanta Talese si era messo a osservare per mesi Sinatra nei club e ristoranti dove trascorreva il tempo con la sua corte di italoamericani, adesso è lui stesso a venir raccontato e celebrato, con giornalisti di decenni più giovani che ne descrivono gli abiti dal taglio italiano, il cappello di un altro secolo, le eleganti camicie a righe. E a rendergli omaggio c’è un’altra corte, fatta di protagonisti dei media, dello spettacolo e dell’editoria sulla via del tramonto. 
A partire dalla moglie Nan, un tempo potente editor letteraria, ex ragazza di famiglia ricca che quando sposò Talese nel 1959 ed entrò nel suo mondo italoamericano, a lei estraneo, divenne anche una musa per gli amici di Gay. E’ a lei che si ispirò Mario Puzo per delineare la figura di Kay Adams, la moglie Wasp di Michael Corleone nel suo “Il Padrino”, che Francis Ford Coppola fece poi interpretare a Diane Keaton nel film-capolavoro degli anni Settanta. Oggi è una signora di 89 anni in sedia a rotelle, alla quale il marito si rivolge con affetto dicendo che “non è più una Ginger Rogers”.


Ad abbracciare Gay e Nan si sono presentati la vedova di Tom Wolfe, Sheila; l’agente letteraria delle star Lynn Nesbit; vecchie glorie come Judy Collins, Frank Stella, Tony Danza e Joel Gray; un ingrigito Graydon Carter, con ciò che resta della folta chioma dei tempi in cui dirigeva Vanity Fair, impegnato a dare il benvenuto come organizzatore della serata anche a David Remnick, direttore del rivale New Yorker. In giro a stringere mani c’era anche Nick Pileggi, cugino di Talese, a completare il quadro di una generazione di italoamericani che, come Puzo, per anni hanno raccontato Cosa nostra e dintorni per trasformare in letteratura e cinema l’imbarazzo di essere considerati mafiosi (Pileggi ha scritto insieme a Martin Scorsese “Goodfellas - Quei bravi ragazzi”). 


Non è un ambiente molto diverso da quello che accompagnava Sinatra nei primi anni Sessanta, quando Talese ne tracciò il ritratto. In “Bartleby and me”, insieme alle consuete storie di personaggi bizzarri che hanno reso celebre lo scrittore, molte pagine sono dedicate a ricostruire quel momento storico e quell’articolo. Talese aveva appena lasciato il New York Times per spostarsi a Esquire, dove sognava di fare la cosa che ancora oggi più gli piace: raccontare nel dettaglio la vita di perfetti sconosciuti, gente comune incontrata nei bar o nei club, con cui si imbarcava in lunghi dialoghi che diventavano profili memorabili. Quando gli fu invece assegnato il compito di intervistare Sinatra, in quel momento uno degli uomini più famosi del mondo, la prese male e accettò controvoglia di mettersi sulle tracce di “The Voice”. A rendere tutto più difficile era il fatto che Sinatra non aveva alcuna intenzione di essere intervistato da Esquire e in generale era in un momento complicato della carriera, che lo rendeva particolarmente irritabile. I giornali dell’epoca erano alla costante caccia di una nuova compagna da assegnargli, dopo che la rottura del matrimonio con Ava Gardner aveva interrotto un romanzo rosa che aveva riempito le pagine della stampa mondiale. La candidata del momento era Mia Farrow, trent’anni più giovane di lui, ma si parlava anche di Virna Lisi che in quei giorni stava girando un film con l’attore dagli occhi blu. 


Per tre mesi Talese ebbe accesso a tutto il clan Sinatra e si trovò a vagabondare con loro da un locale all’altro, da una costa all’altra degli States, da Hollywood a New York. Era diventato parte del team, si trovava spesso a due passi dall’uomo che doveva intervistare, ma Sinatra praticamente non gli rivolse mai la parola. E questa fu con ogni probabilità la sua fortuna. Perché invece di realizzare l’ennesima intervista, per quanto ben fatta, costruì un racconto di tutto il “mondo” di Sinatra, con il risultato di diventare probabilmente la persona che meglio di tutti lo ha saputo capire e descrivere. 


Il raffreddore da cui era afflitto il cantante nei primi giorni in cui Talese lo avvicinò, divenne – oltre che il titolo della storia - una chiave di lettura per capire una star complessa. Quel malanno comune era per lui una tragedia, significava non riuscire a dare il meglio con ciò per cui era famoso: quella voce che era diventata il prodotto multimilionario su cui si reggeva tutta la gigantesca industria nata intorno a Sinatra. Quando l’articolo uscì su Esquire, accompagnato da una copertina con un ritratto d’autore, fece un clamore enorme. Perché Talese era riuscito a portare con sé il lettore dentro le sale riservate piene di fumo dove si riuniva il clan e nei club dove le ragazze facevano la fila per incontrare Sinatra, per poi trovarlo irritato e scostante al banco del bar, immerso nei suoi pensieri e con lo sguardo perso nell’ennesimo drink. Fu anche un viaggio dietro le quinte di uno show che stava registrando per la Nbc, alla scoperta di una star capace di unire un carattere difficile a una bravura mostruosa, ma anche di mostrare le proprie ferite e preoccupazioni, la paura di venir superato dai tempi (era il momento del boom dei Beatles), l’ansia di essere sempre al massimo delle proprie capacità vocali e un perfezionismo alimentato da un talento senza eguali. 


In “Frank Sinatra ha il raffreddore” alla fine c’era un pezzo di storia dell’America. C’era l’ascesa straordinaria e da sogno americano di un ragazzino solitario di Hoboken, in New Jersey, diventato adolescente ascoltando i grandi cantanti alla radio e facendo i conti con la propria storia di figlio di immigrati italiani in cerca di integrazione. Tra le righe di Talese si respirava la fatica per Sinatra di crescere con il cognome di suo padre Martino, un siciliano che per guadagnarsi da vivere faceva finta di essere irlandese e tirava di boxe con il nome d’arte Marty O’Brien, perché gli italiani non erano ancora i benvenuti nel pugilato (mancavano molti anni all’arrivo di Rocky Marciano). C’era anche il legame di un figlio legatissimo alla caparbia mamma genovese, Natalina Maria Vittoria “Dolly” Garaventa, una donna più avanti dei suoi tempi, impegnata in politica con i democratici del New Jersey e con il pallino degli affari: in pieno Proibizionismo, aveva aperto un bar semiclandestino con il soprannome finto irlandese del marito, “Marty O’Brien’s”.

E poi c’era il percorso che aveva portato al successo planetario, seguito da una profonda crisi artistica nel secondo dopoguerra, a sua volta seguita da una rinascita negli anni Cinquanta su cui nessuno avrebbe scommesso. Il tutto accompagnato dalle accuse e dai sospetti di frequentare il mondo di Cosa nostra, dai frantumi lasciati alle spalle dopo i matrimoni andati male, e da un incessante tentativo di trovare qualche spazio di vita privata nonostante la presenza costante di riflettori e paparazzi. 

Talese aveva raccolto un pezzettino della storia da ciascuno dei tanti personaggi che ruotavano intorno a Sinatra e aveva ricomposto il puzzle di un artista fino ad allora mai raccontato così in profondità. In “Bartleby and me” oggi lo scrittore svela anche come prendeva appunti all’epoca, su foglietti e cartoncini che teneva nascosti nella giacca, su cui correva ad annotare una frase o un’immagine chiudendosi nel bagno dei locali per non farsi vedere. Emerge, nel nuovo libro, la passione di sempre per raccogliere le storie non dei potenti, ma del sottobosco che li circonda, fatto di guardie del corpo, tirapiedi, cuochi, spicciafaccende, fidanzate, aspiranti fidanzate, addetti stampa, parrucchieri, sarte e camerieri. E’ anche e soprattutto attraverso il loro sguardo che Talese raccontò Sinatra, seguendolo nei vagabondaggi notturni a giro per locali a Los Angeles e Las Vegas, e nei luoghi di New York dove invece faceva base fissa e dove tutti lo venivano a trovare, anche solo per dargli uno sguardo da lontano.

 
L’articolo su Esquire diede così notorietà perpetua a “Jilly’s” sulla Cinquantaduesima West, il luogo simbolo delle notti newyorchesi di Sinatra, gestito dall’amico Jilly Rizzo, dove a fargli compagnia a tavola era gente come Liza Minelli e Sammy Davis Jr, mentre una folla di visitatori si affacciava a rendergli omaggio, uno alla volta, in scene che ricordavano quelle che Puzo avrebbe descritto di lì a poco nel “Padrino”. Un altro celebre giornalista di New York, Pete Hamill, raccontò e celebrò anni dopo nel suo libro “Why Sinatra Matters” l’altro rifugio del cantante, il ristorante P. J. Clarke’s sulla Terza Avenue, che era dedicato alle serate più malinconiche, quelle in cui voleva stare da solo con pochi amici fidati.


Adesso è la volta di Talese farsi vedere e omaggiare in un ristorante, al Waverly Inn di proprietà di Graydon Carter, che sul menu riporta in evidenza, vantandosene, una “recensione” che ha lasciato Donald Trump: “Il peggior cibo in città!”. Un luogo frequentato dal media business e dal mondo culturale che un tempo ruotava intorno al Vanity Fair di Carter. Un pezzo di New York che comincia a diventare vintage e ad assomigliare alle foto delle cene lontane dei tempi di Frank Sinatra e la sua gang. Talese sa di essere un personaggio ormai al crepuscolo, ma la prende con ironia. Al suo book party, a chi gli chiedeva perché abbia scritto un altro libro a novantuno anni, ha risposto fingendosi serio: “Come osservatore di persone, ho sempre ritenuto i ristoranti dei luoghi perfetti: ho scritto il libro per coprire le spaventose spese per le mie cene”. 

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