l'intervista

"L'intelligenza artificiale è il nuovo oracolo di un mondo cieco". Parla Benjamín Labatut

Giuseppe Fantasia

A tu per tu con lo scrittore olandese di nascita e cileno d’adozione, neo vincitore della 26esima edizione del Premio Malaparte con il suo "Maniac" (Adelphi)

"Quello che le persone non capiscono dell’intelligenza artificiale – spiega al Foglio Benjamín Labatut – è che si tratta di un modello predittivo. Non è un modello che funziona né attraverso la replicazione né con la copia, non è nemmeno un modello creativo, ma il suo aspetto più importante è proprio la previsione". "Avrà certamente un impatto fondamentale sulle nostre vite, perché arriva in un momento della storia dell’uomo in cui siamo diventati incapaci di immaginare il nostro futuro. L’intelligenza artificiale non arriverà, però, in un futuro molto lontano, perché è già qui. Avrà un impatto sulla creatività che non so valutare, ma arriverà in un momento in cui sembriamo tutti diventati ciechi rispetto al nostro stesso pensiero".

 

Che ruolo ha, dunque l’intelligenza artificiale?

"È come se svolgesse il ruolo di un oracolo. Siamo in un momento in cui ci muoviamo contemporaneamente verso un futuro che non riusciamo più a immaginare, come dicevo, ma allo stesso tempo stiamo tornando indietro, ai tempi in cui chiedevamo all’oracolo di darci risposte sagge, quando ci rivolgevamo ai poteri più alti per farci indirizzare nelle nostre vite".

 

Ha paura delle sue conseguenze?

"Sono preoccupato, questo sì, ma dobbiamo avere fiducia in noi stessi. Così come esistono i pericoli legati al nostro pensiero che ci possono portare in luoghi molto oscuri, così abbiamo la possibilità di fare ricorso ad altre facoltà che dobbiamo sviluppare. L’intelligenza artificiale, ripeto, è già qui e l’uomo saprà reagire. Lo ha già fatto reagendo molto bene davanti a crisi immediate, presenti e urgenti. Di fronte a una minaccia esistenziale gli esseri umani riescono ad affrontare il problema e a risolverlo. Quindi, sì, sono preoccupato, ma anche molto fiducioso in tal senso".

 

Siamo sull’isola di Capri, luogo d’incontro e d’ispirazione da sempre per letterati, poeti e artisti, da ventisei anni teatro d’azione dell’iconico Premio Malaparte, istituito da Graziella Lonardi Buontempo nel 1983 per iniziativa di Alberto Moravia e oggi curato dalla nipote Gabriella Buontempo con il sostegno di Ferrarelle Società Benefit per il dodicesimo anno. La giuria del Premio Malaparte 2023 - composta da Leonardo Colombati, Giordano Bruno Guerri, Giuseppe Merlino, Silvio Perrella, Emanuele Trevi e Marina Valensise - ha deciso di assegnarlo quest’anno proprio a Labatut, autore cileno nato in Olanda, ma da tempo naturalizzato cittadino del Paese sudamericano. Classe 1980, look total black alla Tim Burton, è già autore di Quando abbiamo smesso di capire il mondo e de La pietra della follia, entrambi pubblicati da Adelphi come l’ultimo, Maniac, appena uscito nella traduzione di Norman Gobetti.

Un’opera di finzione basata sulla realtà, come scrive l’autore che dopo Capri sarà a Roma per poi iniziare il suo tour europeo. La realtà sono le biografie in esso raccontate di due matematici e di un giocatore di go: Paul Ehrenfest, John von Neumann e Lee Sedol. La finzione è invece tutto ciò che Labatut è riuscito ad aggiungere a quelle vite, intrecciate tra loro in un percorso assai godibile per il lettore che ripercorre la genesi e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

 

Un saggio che è un vero e proprio viaggio tra letteratura e scienza, quest’ultima intrisa di pericoli. Quali sono?

"Sono tanti, ma il modo migliore per descriverli è leggere la sezione del libro dedicata a János detto Jancsi, più conosciuto come John von Neumann, un uomo capace di risolvere equazioni impossibili in pochi minuti, ma incapace di allacciarsi le scarpe o di cucinarsi un uovo. È stato l’inventore di tutto ciò che fa parte del nostro mondo, ma ebbe al tempo stesso il potere di distruggerlo. In pratica, lui ci dice che la Scienza è neutra, che è utile per tutti gli scopi e indifferente agli stessi. È questa la grande libertà che riguarda scienza e arte, portate a considerare tutto senza alcun limite, se non quelli che stabilisce la disciplina. Per questo la scienza comporta molti rischi, ma è anche l’impresa umana più importante perché ci porta verso i limiti della conoscenza stessa e a farci domandare chi siamo. La domanda sulla nostra identità, invece, è una di quelle a cui la scienza non può dare risposte. Ci dobbiamo, quindi, rispondere da soli con tutte le nostre facoltà cognitive. Ma le dirò di più".

 

Prego.

"L’altra cosa che dice von Neumann è che per il progresso non esiste una cura. Questo è evidente quando si viaggia in Europa, ve lo poso assicurare io che vengo da un Paese in cui stiamo ancora cercando di raggiungerlo. Qui da voi si nota il prezzo che questo progresso ci costringe a pagare. Nonostante questo, però, gli uomini continuano ad essere irrequieti e a vivere tra mille e continue contraddizioni. Le contraddizioni ci sono da sempre, questo è vero, nel linguaggio dei computer come in quello delle parole. I sacrifici che compivano i santoni sugli altari hanno lo stesso grado di pericolo degli esperimenti condotti da von Neumann in new Mexico".

 

La scienza e le sue macchine: a colpire, tra le pagine del libro, è soprattutto una o più frasi brevi in una pagina. Come mai questa scelta?

"Quello è stato uno degli aspetti più complessi da gestire del libro, perché volevo che ci fosse una voce del computer, che fosse il computer a parlare. La terza parte della sezione del libro si intitola Fantasmi nella macchina. Tendiamo a distinguere le cose vive dalle cose morte, le spirituali da quelle che non lo sono, ma la verità è che la tecnologia è come la tela che tesse il ragno: è un’estensione umana. Il libro parla della nascita di una cosa nuova, di uno spirito nuovo e di un pensiero senza corpo. Io volevo che ci fosse un narratore, perché ad un certo punto ho messo a fuoco che l’intelligenza artificiale c’è già in letteratura ed è il narratore, una voce fuori campo e senza corpo che esiste già. Quando è vista sulla pagina, il lettore si chiede chi sia a parlare. Ho insistito con la mia agente per lasciare questa parte, perché tutti vogliono delle cose che siano comprensibili, invece a me piace che il mio lavoro sia fallace, che ci siano degli errori che se alle volte ti fanno andare tutto in monte, delle altre ti fanno trovare l’oro».