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una finestra sempre aperta

Per capire che cos'è l'egotismo basta andare a rileggersi Stendhal

Marco Archetti

L'io che non permea il mondo, ma che è solo il punto di partenza e mai di arrivo. Una grande indagine del mondo attraverso sé stessi

Per occupare il tempo libero a Civitavecchia, si scrive un capolavoro. Accadeva duecento anni fa tra giugno e luglio, e accadeva a monsieur Marie-Henry Beyle, console 49enne che la storia ricorderà come lo scrittore Stendhal, il quale ricorderà sé stesso come milanese, al punto da farlo scrivere, in italiano, sulla propria tomba – in alcune bozze di lapide che Stendhal andava concependo, risulta che avrebbe voluto anche menzionare l’amore per Mozart e Shakespeare, ma poi non ne fece nulla. 

 

“Io odio Grenoble, sono arrivato a Milano nel maggio 1800 e amo questa città”, scrive nei Ricordi di egotismo l’uomo che leggeva Ariosto a cavallo. L’odio per la natia, tremenda Grenoble tracima da ogni pagina anche di Vita di Henry Brulard. La capitale del Delfinato era sede del Parlamento, grande e inerte corpo giudiziario, e Stendhal la trafiggeva così: “Una città in cui a tutti piacevano i cavilli e tutti quanti vivevano di cavilli e facevano dello spirito sui cavilli”. Peraltro Stendhal aveva un padre che ci si trovava benissimo e gli strappava dalle mani il Don Chisciotte – “lo leggevo sotto il tiglio del viale, è stato forse il più grande momento della mia vita” – e lo obbligava a seguirlo nei campi per ascoltare il racconto avvincente dei suoi progetti di bonifica, incredulo che il figlio non se ne appassionasse. “Tutto ciò che mi ricorda Grenoble mi fa nausea. Grenoble è per me il ricordo di un’abominevole indigestione, uno spaventoso disgusto. Tutto ciò che è volgare: ecco Grenoble per me,” gli rispose un giorno, per interposta pagina letteraria, lo scrittore cui saremmo grati fino all’ultimo dei nostri giorni per non averci afflitto con un’autofiction sulla Grenoble dei suoi struggimenti, sulla stanzetta umida e sul cuscino rorido di pianto. Poi sì, un ringraziamento anche al nonno, “che mi comunicò tutta la sua venerazione per Orazio, Sofocle, Euripide e la letteratura”, ricorderà Stendhal.

 

Che – torniamo a noi – annoiandosi a Civitavecchia compose appunto Ricordi di egotismo. Ed è proprio in questa occasione che il termine, in francese, appare per la prima volta o quasi – gli era già successo con “cristallizzazione”. (Pensiero fugace rivolto ai contemporanei: casomai qualcuno si sentisse giustificato, da un antenato di tale portata, ad abbandonarsi alla più dilaniante autofiction, ecco che sarebbe il caso di consigliar loro un sorso direttamente alla fonte, per evitare fraintendimenti e indebite appropriazioni.)

Se in Inghilterra “egotism” era un’espressione usata non certo con sfumature riprovevoli, i dizionari francesi dei tempi di Stendhal – un Raymond del 1824 e un Rivarol del 1827 – riportavano: “Abitudine biasimevole a parlare di sé”. Il Littré rincarava: “Parola inglese che indica la mania di parlare di sé”. Tuttavia, nei Ricordi di egotismo – siamo a cent’anni dalla prima edizione italiana per Facchi, Milano – Stendhal offre un’altra sorprendente lettura: il suo riferimento per la pratica egotistica sono le Lettere persiane di Montesquieu. E se per la conoscenza dell’animo umano lo strumento più diretto ed efficace è quello dell’indagine della propria – qui, l’omaggio a Montesquieu – non bisogna abbandonare una netta autocritica e quell’autoironia che permetta la cosa per Stendhal più importante: la proiezione a distanza del proprio io, per analizzarlo come se fosse altro.

 

E’ proprio questa consapevolezza che rende i Ricordi d’egotismo ciò che sono, cioè un capolavoro dello sguardo sul mondo e su un’epoca, e non una lagna conciata con avanzi di cordone ombelicale. La distanza. Il distacco. L’ironia che sprizza. Le descrizioni dei vizi umani. Le caricature sapienti. L’inventiva inesauribile. La finestra sempre aperta, a cercare in sé il racconto di qualcosa che sia altro da sé. In sintesi: l’io che non permea il mondo, ma che è solo il punto di partenza e mai di arrivo. Una grande indagine del mondo attraverso sé stessi – l’io che si fa tanti. 

“Quel che scrivo mi sembra molto noioso,” annota a un certo punto Stendhal facendosi venire il dubbio che ai discepoli dell’autofiction non viene mai. “Se continua così questo non sarà un libro ma un esame di coscienza”. Per fortuna no: è una grande festa di personaggi.
 

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