Monsieur Henri Beyle, conosciuto come Stendhal (La Presse)

Stendhal l'italiano

Giuseppe Marcenaro

In otto volumi le lettere dell'adorabile Stendhal per la prima volta tradotte. Il rapporto con Milano (esaltazione dei sensi) e Roma (conoscenza e contemplazione). Sono i due mondi con cui interpretava la letteratura.

La prima impressione è di esaltato sconcerto. Questo si prova nella sotterranea Réserve della Bibliothéque Municipale d’Etude et d’Information di Grenoble, la città natale di Henri Beyle. Una sindrome disarmante filtra nell’animo di fronte a un grande scaffale che ospita una vera e propria montagna di manoscritti: la risulta di una esistenza. Le carte “prodotte” da monsieur Beyle, noto come Stendhal. Un’arruffata di manoscritti: progetti, lettere confidenziali, appunti, scritti occasionali, minute di missive ufficiali.

 

Alla morte di Beyle, affinché di lui non si perdesse il minimo foglio, gli amici suoi, soprattutto il cugino Romain Colomb, ramazzarono le carte “così come veniva”, senza un rigoroso ordine. In quella casualità sta l’autobiografia di Beyle, la storia del Signor me stesso che corteggiò la vita per lasciare al mondo una traccia perché “anch’io sia stato”.

 

Chi ha consuetudine a fornicare con autografi mutati in miti cartacei, quando la fortuna gli consente di avere tra le mani lettere di Stendhal si sorprende, leggendole, di trovarle di una naturale spontaneità: si percepisce subito che il signor Beyle per disposizione d’animo non era preso dal vizio-vocazione comune a tanti letterati che “curano” le loro corrispondenze pensando a una possibile postuma pubblicazione. E “producono” carteggi stereotipati. Finti.

 

Quando un voyeur si infila nella corrispondenza di Stendhal intuisce subito l’uomo disposto alla confidenza. Il messaggio è diretto, palese anche se “comunica” fatti privatissimi. Dalle lettere di Beyle, anche in rapporto a quelle dei suoi corrispondenti, affiora la radiografia del mondo che si spande per l’aria e nella mente. Il fruscio emanato da quelle carte è un brusio musicale: voci, inciampi quotidiani, contrarietà, esaltazioni. Le città, i teatri, i salotti, i caffè, le chiacchiere futili per far passare le giornate, gli uomini complicati e semplici, il mistero celato in un dipinto, la solarità del paesaggio, le ore, la vita.

 

Quando un voyeur si infila nella corrispondenza di Stendhal intuisce subito l’uomo disposto alla confidenza. Il messaggio è diretto

I giorni, “un mondo”, affiorano con disarmante spontaneità dall’inquieto delirio di scritture allineato sui ripiani della Réserve della Bibliothéque di Grenoble. Inutile cercare in questa cave cartacea gli autografi delle celebri opere di Stendhal, i possibili manoscritti de “Il rosso e il nero” o della “Certosa di Parma”. Non vi sono. Non esistono più. Nel coacervo delle carte, volendo, si può sfogliare la forse “più emozionante” scritturazione di Stendhal, “Vie de Henry Brulard”, zeppa di rimandi, ripensamenti, trapassato di esistenza. E’ forse la più “organica”, impropria, non finita, “autobiografia” del signor Beyle.

 

Sulle pagine che compongono questa esemplare traccia di esistenza, all’autore, tuttavia per raccontare non gli fu sufficiente la scrittura: aggiunse dei croquis, schizzi che fanno vedere le città, le strade, i tic, i personaggi, e quanto ritenuto necessario evocato da una oscillante e “scherzosa” memoria. I disegnetti in punta di penna altro non sono che il contrappunto concreto delle oscillazioni di una mente erratica: iperscrittura, la definirebbe qualche “tecnico”. Sono in realtà l’esercizio ostinato volto a dominare il ricordo di un console di Francia, “esiliato” a Civitavecchia, che nella noia forzata di una cittadina insulsa dello Stato della Chiesa, ripercorreva se medesimo rincorrendo sulla carta ciò che era stato.

 

Ma la vera autobiografia sta nel coacervo della corrispondenza. Missive inviate e ricevute: una conversazione scritta come avrebbe potuto svolgersi in un salotto, senza affettazione né pedanteria. Queste lettere, che vanno dal 1800 al 1842, sono edite oggi per la prima volta in italiano, in otto monumentali volumi ( a cura e trad. di V. Sorbello, ed. Aragno), sotto il titolo “Il laboratorio di sé”.

 

In questo affollamento cartaceo, stupefacente radiografia, al di là dei fatti raccontati, sussurrati, allusi si rinviene l’amusement preferito di Stendhal: giocare con la propria identità ammantandosi con i più eccentrici e originali pseudonimi. Oltre ad attribuire ad altri i suoi testi, “si nascondeva” dietro alle più diverse personalità.

 

Non vi sarebbe perciò un solo Stendhal, ma la sua moltiplicazione: Henri-Clarence Banti, Octavien-Henri Fair-Monfort, Leimery, Seymours, Le Bourlier, colonel L. Myself, Ceranuto, d’Averney, M. de Léry, Charlier, Coste, Louis-César-Alexandre Bombet, Barett, Aubertin, l’Animal, l’évéque d’Egrah, Bliarce, Jacques, Brulard, Darlincourt, D. Gruffot Papera, L.St.Pétau sono i contronomi, ma se ne troveranno certamente altri, con cui Henri Beyle si immedesimava, o alludeva a se stesso. Dissimulava la propria personalità.

 

Da console a Civitavecchia scrive nuvole di lettere. Sono un miscuglio di pulsioni, di soprassalti psicologici, di angosce

Essere tanti nell’illusione di rinvenire in sé l’autentico Henri Beyle. Certo, la più celebre “mutazione” è Stendhal, il nome con cui firmò i libri più noti. Henri aveva però un “gemello siamese” privatissimo con il quale si appartava dentro ai libri, ingannando se stesso e “tradendo” addirittura Stendhal. Il “doppio” prediletto si chiamava Dominique con cui firmava “per lui” ossessivi appunti vergati sui margini dei libri. Dominique, come l’amatissimo Domenico Cimarosa.

 

In questa sventagliata di “persone” vi doveva essere l’ansia di Beyle a trovare un autentico se stesso: chi fosse o potesse essere veramente. Libero comunque di lasciarsi andare a spericolati guazzabugli scrittori con periodi sospesi, sfacciati plagi, interpolazioni, salti, ostinate ripetizioni, scarti, in un continuo garbuglio di ritorni, ellissi declinati in un libero mèlange di lingue: francese, inglese, italiano… Questa è anche la “struttura” delle sua lettere: dense di allusioni, fitte di resoconti, di crittografie onomastiche, firmate ovviamente col primo nome che gli passava per la testa.

 

Viveva l’onda del pensiero che aggrovigliava un mucchio di cose tutte insieme, gaiamente germogliate su una primaria e fondante aspirazione: essere italiano. Desiderava a tutti gli effetti percepirsi cittadino dell’Italia, paese che lo folgorò quando, nel maggio 1800 vi arrivò la prima volta, attraverso le Alpi, sottotenente di diciassette anni, con la Grande Armée al comando dal Primo Console Napoleone Bonaparte.

 

“Un mattino entrando a Milano in una bella mattinata di primavera, e che primavera! E in che paese del mondo! Milano… amo questa città. Qui ho provato le più grandi gioie. Questa città divenne per me il più bel luogo della terra. Non sento affatto il fascino della mia patria, ho per il luogo dove sono nato una ripugnanza che arriva fino al disgusto fisico. L’Italia, il più bel paese del mondo…”. In terra italiana il giovane sottotenente, infervorato di gloria e abbagliato di bellezza, aveva provato l’ebbrezza del paesaggio, la commozione e l’esaltazione della musica, il delirio dell’arte. A Milano era stato “ammesso” all’età adulta. Aveva perduto la virtù con Angela Pietragrua, donna dai tanti amanti. Un infoiato Beyle avrebbe rincorso Angela per anni. La cercava ogni volta che tornava a Milano. Angela, “sublime puttana all’italiana”. La prima femmina avuta? Così sembrerebbe. Anche se confessava di non riuscire a ricordare con quale donna e in quale bordello milanese fosse stato iniziato alle pratiche d’alcova.

Non si può tuttavia sostenere che Beyle ignorasse la propria patria. L’Italia è tuttavia la costante aspirazione: stabilirsi nel “più bel paese del mondo” e mutarsi nello spirito in un italiano. Ci riesce attraverso la scrittura. Lo confessa in una lettera a Prosper Mérimée: “scrivere per un povero diavolo è il piacere più grande. Scrivere muta il proprio essere”. Dopo diverse esperienze letterarie riesce a “mutarsi” compilando una vera e propria guida della città di Roma.

 

Quando nel settembre 1829 esce, “Promenades dans Rome” risulta essere una curiosa composizione di materiali eterogenei: articoli di giornale e riviste che Stendhal recupera dai suoi cassetti, elenchi di artisti e pontefici, notizie carpite da varie fonti, plagi da altri e di se stesso, pagine dove evocati quasi in trance si addensano aneddoti, squarci di vita quotidiana, impressioni e le emozioni di un autentico flaneur. Più che una “guida” o un “ritratto di città” le pagine di Stendhal rassomigliano a una impropria seduta psicoanalitica.

Queste lettere, che vanno dal 1800 al 1842, sono edite oggi per la prima volta in italiano, in otto monumentali volumi

 

Beyle muta in altro da sé. E’ sul limite dell’onirico, quasi fosse in trance. Non contempla dall’esterno. Non è spettatore. Fa parte dello spettacolo, sta sul proscenio: apprezza le bellezze delle liturgie e il fascino delle cerimonie che depistano dalla ragione. Si mescola, senza alcun infingimento, alla plebe volgare e ammirevole, al mondo quotidiano di bottegai, barbieri, calzolai, contadini inurbati, popolani scaltri e sguaiati che fanno dell’astuzia e dell’intrigo l’arte di vivere. E’ una energia di cui Beyle si sente parte. Tutto l’opposto della “sua” Francia “restaurata”, divenuta sonnolenta e patria di luoghi comuni. Stendhal è romano. Si fa adottare da Roma dove “sentendosi finalmente italiano” soggiornerà a lungo anche grazie, dal 1831 al 1836, all’incarico di Console a Civitavecchia.

Sentirsi italiano per Beyle fu una “cristallizzazione”. Lo confesserà in una lettere a Domenico Fiore: “Ho adorato, e adoro ancora una donna chiamata mille ans [Milano]. La passione è stata una follia dal 1814 al 1821. Ho ottenuto in sposa la sorella maggiore [Roma]; la conosco esattamente e a fondo; non c’è più niente di esaltato né di romanzesco tra noi dopo quattro anni di matrimonio”. Con una lettura giovialmente immaginaria, Milano per Stendhal è l’amante da cui si accetta e tollera tutto. Roma ha il profilo di una moglie con cui si condividere la quotidianità e con la quale, giusta consorte rispettata, anche ci si annoia. Milano è esaltazione dei sensi mentre Roma è contemplazione e pienezza, “conoscenza”. Due città che simboleggiano una il brio e l’altra la sapienza: le componenti su cui si basa idealmente per il signor Beyle il modo d’intendere la vita.

Per anni, per vivere, rincorse una sinecura, un incarico che gli desse la possibilità di un impiego fisso. L’occasione si presenta nel 1830: disgregatosi il regno di Carlo X in Francia la situazione politica è mutata. Cambiato il vento si aprirono possibilità per pubblici incarichi. Beyle scrive all’amica madame De Tracy: “Gli intriganti sono riapparsi”. Anche lui vuole partecipare “all’accaparramento dei posti”, in risarcimento del licenziamento dall’amministrazione pubblica subito nel 1814. Interpella amicizie e conoscenze che, rivolgendosi al conte Molé, ministro degli Affari esteri, sollecitano per Beyle un posto di console in una città italiana: Napoli, Genova, Livorno potevano andare bene. Gli fu proposta Trieste: l’Austria negò il regio exequatur a un “reduce” napoleonico. Verrà destinato a Civitavecchia. E ancor prima di prendere possesso dell’incarico Beyle si preoccupa di ottenere dall’ambasciatore di Francia il permesso di poter risiedere a Roma quindici giorni al mese.

 

Milano per Stendhal è l’amante da cui si accetta e tollera tutto. Roma ha il profilo di una moglie con cui si condivide la quotidianità

Degli undici anni della sua vita consolare, più della metà li passerà a Roma dove acquisisce la sua parte di italianità frequentando il patriziato romano: i Cini, i Caetani. Non perde occasione per fuggire da Civitavecchia e rifugiarsi nella città dei papi dove la magnifica veduta di San Pietro in Montorio sul Gianicolo, “un posto unico al mondo”, lo indurrà alla meditazione sulla propria vita portandolo a scrivere quella formidabile autobiografia che è “Vie d’Henri Brulard” e il grande romanzo “La Chartreuse de Parme”, che trae spunto da una cronaca romana del Cinquecento, dall’Origine delle grandezze della famiglia Farnese.

 

Quando è a Civitavecchia scrive nuvole di lettere. Sono un miscuglio di pulsioni, di soprassalti psicologici, di angosce. Anche missive formali proprie di un console in attività: “Al signor Ministro François Guizot, Io cerco di non suscitare mai questioni; tuttavia devo portare alla conoscenza del Dipartimento diversi abusi che si praticano alla posta pontificia. Poiché il consolato di Civitavecchia riceve molti pacchi per l’Ambasciata del Re a Roma, il risultato degli abusi gonfia lo stato delle spese di servizio di questo consolato”. Il signor Console Beyle si dilunga aggrovigliandosi in una disquisizione in rapporto al cambio tra baiocchi e franchi (1 scudo e 30 baiocchi – 7 fr., 06, il franco vale 18 2/5 baiocchi) “Ho l’onore di unire alla presente la busta tassata”. Precisazioni da far impallidire il più tignoso e burocratico italico contabile. Poi, in altra lettera, farci provare il piacere di scoprire un imprevedibile Stendhal, dedito a un microscopico “traffichetto” dalla “trama” così “tanto italiana”. E’ nella lettera inviata il 29 novembre 1840 ad Auguste Fabreguettes Console di Francia a Malta. “Signore e caro collega, Io chiedo la carità da tutte le parti per dei sigari.

 

Mi si fa notare che ho la fortuna di avere un corrispondente pieno di cortesia a Malta. Desidererei dei buoni sigari del prezzo da 15 a 20 centesimi l’uno. Se ne potrebbero fare 3 o 4 pacchetti e affidarli al Commissario di uno dei bastimenti che vengono da queste parti. Poiché questa derrata è di piccola qualità e per mio uso personale non ho rimorsi. Mi sembra di non allontanarmi dai regolamenti. Vi prego, Signore, di presentare i miei rispetti a Mme Fabreguettes e di credermi vostro devoto servitore. Non posso inviarvi da qui che dei rosari”.

Nel “vuoto” della sonnolenta Civitavecchia il signor Console dovette pensare più volte al proprio aldilà. Stilò diversi testamenti. In uno indicò con assoluta precisione, addirittura impostandolo graficamente, quanto si sarebbe dovuto incidere “in italiano” sulla lapide della propria tomba. Lo si può costatare visitandola al cimitero di Montmartre, a Parigi: “ERRICO BEYLE MILANESE SCRISSE AMO’ VISSE”.

Di più su questi argomenti: