Un libro, una vita

Il Rimbaud di Pierre Michon

Luigi Azzariti-Fumaroli

Ripubblicata da De Piante, arriva in libreria la biografia, "racconto della vita", del poeta francese, "un essere la cui grandezza è di per sé troppo spaventosa". La recensione

Da alcuni anni i récits de vie godono di grande fortuna, in Italia (si pensi ad alcuni recenti lavori di Emanuele Trevi) non meno che in Francia, dove molti sono i nomi, da Roger Laporte a Fraçois Bon a Jacques Roubaud, che possono testimoniare di come la letteratura, sotto i paludamenti di un certo sainte-beuvismo, abbia sempre più assunto i caratteri di un’interrogazione sull’“incertezza radicale” che la pervaderebbe. Una condizione, questa, che appartiene sia alla figura dell’autore, comprovando così l’opinione che vuole che quando la scrittura comincia, questi è come se entrasse nella propria morte, sia alle vite che ci si propone di raccontare, come stanno a dimostrare numerose pagine di Pierre Michon. Non solo quelle, molto celebrate, delle “Vite minuscole” ma pure quelle, consacrate a Van Gogh, della “Vita de Joseph Roulin”, o ancora quelle, dedicate a Goya, Watteau e Lorentino d’Angelo (un allievo di Piero della Francesca), consegnate a “Padroni e servitori”. Ma è soprattutto la pseudo-biografia del 1991, “Rimbaud le fils” (tradotta da Passigli nel 2005, ed ora riproposta da De Piante, col titolo, incomprensibilmente infedele, di “Rimbaud”) a cercare di fornire risposta all’interrogativo su «che cosa rilanci in eterno la letteratura», nonostante essa tenda sempre più a scoprire soltanto la propria assenza.

 

Il nome di Rimbaud prima ancora della sua vita sembra capace di serbare una speciale inesauribilità, una sorta di resistenza di ciò che è unico alla logica della traducibilità assoluta. Egli fu «un essere la cui grandezza» – ha scritto Roland de Renéville in “Rimbaud le voyant” (forse uno dei modelli di Michon, insieme a “Rimbaud le voyou” di Benjamin Fondane) – «è di per sé troppo spaventosa» perché possa essere colto solo attraverso la Vulgata che è  cresciuta attorno a lui. È necessario che questa, quale sistema che organizza ogni cosa – «le passioni e gli uomini, la poesia eterea e le leggendarie sbornie, la suprema rivolta, le meschine aringhe e persino il rosario tra le mani di Verlaine» – venga integrata, puntellata, perforata, sovvertita, affinché possa rinnovarsi e perpetuarsi. Come la ricorsività linguistica permette d’inglobare frasi all'interno di altre frasi, così – sembra suggerire Michon – la letteratura vuole che ogni “sistema” si reinventi di volta in volta, prelevando un piccolo retaggio dal codice sempre rimaneggiato della tradizione.

 

La “leggenda aurea” fiorita attorno a Rimbaud – per Michon – è «un’interpretazione del filioque» o piuttosto un’agiografia nella quale, contrariamente a quanto accade di solito nelle vite dei santi, il personaggio predomina sull’individuo. Quanti nel tempo vi hanno dato mano, hanno restituito, dell’autore delle “Illuminations”, un paradigma di tratti: un ovale da angelo in esilio, i capelli scarmigliati, gli occhi biancazzurri. Ad essi si è aggiunto un repertorio di avvenimenti, consoni a chi, dopo essersi fatto da essa violentemente travagliare, «s’amputa, da vivo, della poesia». Ma questa prosopografia non fa altro che «infarinare» i versi di Rimbaud, camuffandoli sotto le sembianze di un’Opera che non ha alcuna passione per ciò che dipende solo da lei suscitare. Si finirebbe così per rinnegare quell’«enigma d’una emergenza» (l’espressione è di Jean-Pierre Richard), che – si legge in un altro testo di Michon, Trois auteurs – consiste nella «volontà enunciativa» della letteratura, nel «desiderio violento» di scrivere, sul margine del palinsesto tramandato da mille messaggeri, una frase lunga e impetuosa, rigorosamente controllata e gioiosamente caotica, propulsiva ma estemporaneamente misurata, elegante e scomposta, prudente e anarchica. Una frase che sibila come il vento alla danza che Rimbaud improvvisa, segnando l’inesprimibile, fissando vertigini, quand’egli torna a mostrarsi come «livido fuoco fatuo».