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Un libro

Mai come oggi parliamo tanto di identità, spesso senza sapere cosa sia

Sergio Belardinelli

In che cosa consiste l’identità di una cultura, di un popolo, di una nazione? E cosa cambia quando ci riferiamo al nostro io? Tra normatività e narratività, In Narciso in frantumi, Luis Cimmino ha provato a rispondere a queste intricate domande

Il problema dell’identità, comunque lo si affronti, è sempre un problema intricato. In che cosa consiste l’identità di una cultura, di un popolo, di una nazione? Che cosa intendiamo di preciso quando, poniamo, all’estero, diciamo di essere italiani, o a Milano di essere marchigiani? 

A queste domande si può rispondere in molti modi, variamente articolati e complessi, alla base dei quali sta anzitutto una realtà geografica, qualcosa cioè di ben definito, sul quale però sappiamo che si sono sedimentati usi, costumi, istituzioni, diciamo pure, una cultura e un carattere, non ugualmente definibili con la stessa precisione. Del resto questo vale anche per le persone. Quante volte ci è capitato di guardare addirittura i nostri figli e di pensare che, al di là del loro aspetto fisico, sul quale certamente non ci sbagliamo, conosciamo poco o nulla di loro, in ogni caso molto meno di quanto vorremmo conoscere? Eccoci così alle prese con altre domande più intricate ancora: in che cosa consiste l’identità dell’io? Di chi parliamo quando parliamo del nostro io più autentico? Abbiamo a che fare con un’identità numerica, con un’identità semplicemente biografica o con un mix di entrambe?

 

Al guazzabuglio di queste domande Luigi Cimmino ha dedicato un libro illuminante e inquietante insieme, pubblicato qualche mese fa da Rubbettino: Narciso in frantumi. L’umano e il suo bisogno di una seconda identità. Quattro capitoli, dedicati rispettivamente all’identità nazionale, all’identità personale, alla normatività e alle sue vicissitudini. Come si evince dal titolo, alla banale e certissima convinzione che ognuno di noi sente di essere lo stesso individuo numerico dalla nascita alla morte (la nostra prima identità), Cimmino ne aggiunge una seconda, stranamente bisognosa di un “sostegno esterno”, diciamo pure di un riconoscimento, quasi che il bisogno che abbiamo di affermarci “tradisca in qualche modo l’oscuro timore, sempre al margine della coscienza, che l’ovvia consapevolezza di essere me stesso sia in realtà molto, molto più labile di quanto credo”. E con questo siamo già nel cuore inquieto di Narciso, considerato da Cimmino non tanto quale banale espressione di uno smisurato amore di sé, quanto piuttosto quale espressione di un “io” che, impossibilitato ad afferrarsi, “tenta in tutti i modi di farsi ammirare, demandando agli altri il riconoscimento della propria agognata bellezza”. Come a dire: siccome ogni volta che provo ad afferrarmi sprofondo in una sorta di pozzo senza fondo, non mi resta che ripiegare sul riconoscimento altrui. Essere me stesso diventa tutt’uno con l’essere apprezzati, riconosciuti nel proprio valore (la propria “bellezza” appunto). La normatività e la narratività dell’esistenza umana sono per Cimmino niente altro che un modo obliquo di guadagnare una qualche consistenza oggettiva da parte di un io che dovrebbe essere se stesso in ogni istante della sua vita senza che questa persistenza si manifesti nel susseguirsi dei sui frammenti.

 

Di qui il rischio che, di fronte alle difficoltà, i fallimenti che sempre ci minacciano, l’io, per mettersi al sicuro e tutelare il proprio valore, finisca per riporre la propria consistenza oggettiva in entità esterne rassicuranti, “ipostasi mitiche” le chiama Cimmino, quali potrebbero essere la nazione, l’etnia, il genere, il tifo politico o quello calcistico, solo per citarne alcune. “La naturale e inevitabile ricerca umana di validità, di un livello in cui farsi più reali, si trasforma così in una identità già realizzata che spesso, con conseguenze tragiche, tradisce la sua falsa origine cercando di imporsi con la forza, divenendo autoritaria”.

Molto interessante in proposito il primo capitolo del libro, dedicato, come ho già detto, al concetto di Nazione. Mettendo a confronto due concezioni paradigmatiche e antitetiche dell’appartenenza nazionale, quelle di Kwane Appiah e di Francis Fukuyama, Cimmino ci fa vedere meriti e limiti di entrambe. La posizione del primo circa l’illusorietà e la mancanza di qualsiasi giustificazione storica o teorica dell’appartenenza nazionale risulterà “banalmente vera”, senza però riuscire a spiegare il diffuso bisogno di identificazione nazionale, e la posizione del secondo, che pur dimostra attenzione per questo bisogno, finirà per sminuirlo alla semplice dimensione piuttosto confusa e indeterminata delle emozioni: il thymos platonico. Ma soprattutto nessuno dei due, secondo Cimmino, sembra in grado di spiegare “in che senso il bisogno di identificazione nazionale sia uno dei molti modi in cui, in generale, gli individui sono spinti a identificarsi in alcunché”.

 

Assai più impegnativa è la domanda che viene affrontata nell’“intermezzo ontologico” del secondo capitolo, dedicato all’identità personale. Posto che gli esseri umani vengono spesso spinti, nei modi più articolati e differenti, a seconda della loro situazione storica e sociale, a identificarsi in qualcosa, cosa ne è della loro identità numerica, la credenza, irrinunciabile, nella permanenza in ciascuno del proprio sé dalla nascita alla morte? E che rapporto c’è fra tale identità ontologica e il bisogno di acquisire un’ulteriore identità? L’idea di Cimmino, detta in estrema sintesi, è che “il modo in cui gli individui identificano sé stessi, più che consistere nell’individuazione di un elemento permanente, avviene attraverso l’indicazione di una continuità biografica: l’identità cui accediamo sia in prima che in terza persona è un’identità essenzialmente narrativa; lo stesso ‘io’ o ‘sé’ con cui un soggetto si autoriferisce non prende forma a prescindere da tale narrazione: quasi che la narrazione biografica e il suo bisogno di valere sia il modo in cui viene riempita l’ineffabile identità sincronica, il misterioso sé che accompagna tutta una vita”.

Detto in altre parole, presa di per sé, la forma del nostro io, la nostra aspirazione a una seconda identità, è del tutto astratta; soltanto gli innumerevoli contenuti culturali, storici, politici che segnano il fluire capriccioso dei nostri destini, possono darle concretezza. Per questo sono così importanti quelle entità, che secondo Cimmino “garantiscano la nostra oggettività indipendentemente dalla capacità di realizzarla”. In molti casi tali entità producono risultati positivi, contribuendo sia alla gratificazione degli individui, sia alla solidarietà sociale; in altri casi, purtroppo frequenti, per compensare la loro astrattezza, tali “identità alle spalle” si fanno violente, reggendosi solo sulla forza e sul dominio da esercitare sugli altri. “Sta soprattutto agli individui, conclude Cimmino, ma anche alle loro istituzioni e alla politica che le governa, gestire e limitare i danni cui può condurre il bisogno umano di tutelare attraverso ipostasi esterne la loro seconda identità”. Di qui, si potrebbe dire, l’importanza di coltivarsi, di imparare a convivere con noi stessi senza la pretesa di conoscerci fino in fondo. L’unico modo che forse abbiamo di guardare l’abisso senza averne paura.