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il personaggio

La verità, vi prego, su Joseph Beuys

Adriano Sofri

“Nazista”, l’accusa che ritorna. Ma già una biografia aveva sconfessato la mitologia costruita dall’artista tedesco e intorno a lui. Un ricordo romano del 1981, quando da una linotype nacque un’opera d’arte per salvare un giornale di sinistra

Il pretesto di questa pagina è uno strafalcione di Paolo Berizzi. Berizzi, inviato della Repubblica, si occupa da tempo di fascismo e neofascismo contemporanei. Questo impegno, che ha consigliato da quattro anni di tutelarlo con una scorta, gli merita una franca solidarietà. Nella sua rubrica, “Pietre”, ha denunciato una frase detta da Alessandro Giuli, direttore del Maxxi, a un intervistatore della rivista di Trenitalia che lo interrogava sulla funzione attuale di un museo: “La stessa dell’arte, una funzione sociale, come diceva Joseph Beuys”. E qui Berizzi: “Joseph Beuys, pittore, scultore e performance artist tedesco morto nel 1986, è noto per il concetto di scultura sociale. Ex nazista della Hitlerjugend, la gioventù hitleriana, e volontario nella Luftwaffe, nel 1976 Beuys si candidò con la formazione di estrema destra Comunità d’azione dei tedeschi indipendenti, e si circondò di ex nazisti e ufficiali delle SS, da Georg Haverbeck a Karl Fastabend”. Fine. 

“Una funzione sociale, come diceva Beuys” – e viene giù una simile folgore. Ora, l’Italia specialmente, e buona parte del mondo, brulicano di opere di Beuys custodite nei musei più prestigiosi e mostrate in gallerie pubbliche e private. Che la più generica delle citazioni di Beuys suoni come una compromissione col nazismo è un’estensione insensata del compito di sentinella antifascista. Temo che Berizzi abbia orecchiato qualche scampolo di una discussione dirompente su Beuys, in Germania soprattutto, arrivato in Italia a suo tempo attraverso una cronaca sulla Stampa e qualche articolo sulle riviste d’arte. Cosa singolare, perché l’Italia, specialmente nel suo meridione, è stata prediletta da Beuys, e l’ha ricambiato. Forse proprio questa predilezione, e magari gli interessi mercantili che l’hanno accompagnata, spiegano la disattenzione. La quale a sua volta spiega la faciloneria di una sentenza come quella emessa da Berizzi a carico dell’incolpevole Giuli.

Al centro della “questione Beuys” sta la imponente biografia – tre volumi, per complessive 1.100 pagine – che gli ha dedicato Hans-Peter Riegel nel 2013. Riegel (Düsseldorf 1959), pittore e studioso di comunicazione, ha frequentato Beuys, e ha meticolosamente sconfessato l’intera mitologia costruita da lui e attorno a lui: amico di nazisti, bugiardo sistematico sulle proprie vicissitudini, seguace pedissequo dell’antroposofia di Rudolf Steiner, e probabilmente clinicamente matto. Buona parte di questo poderoso smantellamento era nota da tempo. Beuys (nato nel 1921, morto nel 1986) era cresciuto nella Gioventù Hitleriana e si era arruolato volontario nella Luftwaffe. Aveva raccontato una storia della propria parte in guerra un po’ arrangiata, molto inventata: nel 1944, a bordo di uno Stuka – come pilota, no, come mitragliere, no, come marconista – era precipitato in Crimea. Gravemente ferito, era stato soccorso dai nomadi tartari e per giorni curato da loro, riscaldato dal feltro, medicato dal grasso animale – gli ingredienti fondamentali delle sue istallazioni e sculture – e insomma salvato. Una leggenda oltretutto ben trovata a riguardarla oggi, quando l’epopea dei tartari di Crimea deportati ferocemente due volte, da Caterina II e poi da Stalin, proprio in quel 1944, è tornata così attuale.

Leggenda probabile anche la piastra metallica al posto della calotta cranica, da allora coperta dal cappello di feltro che, assieme al giubbotto da pescatore e agli scarponi connotava la sua figura carismatica – e la faccia bella, di un Jacques Brel affinato e dalla chiostra di denti meno affacciata. E poi l’invenzione delle decorazioni di guerra, fino alla Croce di Ferro. Altrettante notizie da sempre accompagnate da un alone di verosimiglianza artistica così suggestiva da prevalere sulla verità. L’antica aspirazione a fare della propria vita la propria principale opera d’arte era rinnovata in Beuys dalla proposta provocante di un modo di vita che mescolava la tradizione, conservatrice o peggio, del romanticismo della natura tedesco al nuovo sentimento ecologista e a una sobrietà spinta all’ascesi. E quel modo di vita riguardava tutti: ognuno è un artista – dichiarazione che per un verso fa intravvedere il vicoletto cieco dell’uno vale uno (Beuys propugnò la “democrazia diretta attraverso il referendum”), ma per l’altro ripete Novalis: ogni persona dovrebbe essere un artista, ogni cosa dovrebbe essere una bella arte. 

Insomma, le bugie di Beuys, anche una volta documentate scrupolosamente (e con qualche concessione al pettegolezzo) non smettono di essere parte della sua personale performance. La diagnosi clinica, che pure gli si è cercata, decreta che “aveva due facce”, ciò che è irrisorio per i suoi ammiratori, che di facce gliene trovano molte di più, e se ne rallegrano. Molto di tutto ciò era stato detto prima di Riegel, in particolare nel 1980 da Benjamin Buchloh (1941) storico dell’arte a Harvard, insofferente dello sciamanesimo di Beuys. Riegel certifica che Beuys ha mentito sullo stesso luogo di nascita, sostituendo a Krefeld la Kleve di Lohengrin, il Cavaliere del cigno. Ha mentito sul diploma. (Può servire il giudizio di Berdiaev su Rudolf Steiner: “Persuadeva ed ipnotizzava non solamente gli altri, ma anche se stesso”). 

Le relazioni con personaggi che, come lui del resto, ma ben più in affari di lui, erano stati nazisti, sono problematiche. Ci sono critici che hanno visto nell’opera di Beuys un riconoscimento decisivo del significato di Auschwitz. Gene Ray, 2001: “La sua decisione di diventare artista era dipesa, disse, ‘dalla consapevolezza che un’arte così legata alla lingua tedesca e al popolo che la parla era anche l’unico modo per superare tutte le macchinazioni ancora di matrice razziale, i peccati terribili, e le indicibili macchie nere, senza perderle di vista per un attimo’”. Altri hanno denunciato, al contrario, un’incomprensione ostinata. A vantaggio dei secondi sta la frase riferita da un assistente, pronunciata nel 1967: “In fondo questa società è anche peggiore del Terzo Reich. Hitler mandava ai forni solo i corpi…”.

Sono arrivato fin qui senza dire del rapporto di Lotta continua, e mio personale, con Joseph Beuys. Beuys non è mai stato marxista perché era nemico del materialismo. Ha simpatizzato col movimento studentesco tedesco nel ‘68. E’ stato tra i fondatori dei Grünen, che non voleva dire essere di sinistra, “verdi fuori e rossi dentro”, che forse è la ragione principale della riuscita dei verdi tedeschi e dell’asfissia degli italiani. Con Lotta continua ebbe a che fare da quando fuorusciti italiani, a Francoforte e altrove, si legarono a militanti come Dany Cohn-Bendit e Joschka Fisher. Uno, Francesco-Checco Zotti, diventò suo amico. Numerosi musei serbano testimonianze della simpatia di Beuys per il titolo “Lotta continua”. Nel 1981, chiusa da anni l’organizzazione, si trattava di salvare il giornale, e Beuys venne a Roma con sua moglie Eva e i figli Jessyka e Wenzel, pronto a fare qualcosa a nostro beneficio. La storia è stata raccontata, ma vale sempre la pena, perché è generosa, divertente, e losca. Era maggio, arrivò senza avere la minima idea di che cosa fare, e lo chiese a noi. Era stato designato lo spazio magnifico di Palazzo Braschi. Noi eravamo falliti, incombeva la fotocomposizione, avevamo appena svenduto i macchinari ai nostri tipografi per un prezzo simbolico. Avevo sempre venerato la bellezza della linotype, la pesantezza e la grazia dei caratteri fusi e composti a mano – i veri anni del piombo. La proposi a Beuys, accettò con entusiasmo.

Era notte, la vigilia, mandammo a casa di Giovannone, il nostro capo tipografo, a ricomprare a prezzo moltiplicato la linotype e caricarla dalla sua cantina su un camion. Il giorno dopo, in mezzo a un pubblico appassionato, fu tramutata in un monumento: la bandiera, opuscoli, un volantino, parecchio burro... Tano D’Amico fotografò. Beuys aveva chiesto lavagne che avrebbero completato l’istallazione, posate per terra o appese alla parete, riempite dai suoi testi e disegni: cosmologici, sapienziali, con una prevalenza dei presocratici. Eravamo così squattrinati, e d’altra parte non avremmo chiesto a lui di sobbarcarsi per giunta alle spese, che alcune lavagne erano tavole verniciate di nero, in particolare una più grande, con la dedica, che sarebbe rimasta a Checco e a me. Checco fu l’interprete di Beuys che accompagnava il lavoro con la spiegazione. Volle una pausa per restare solo – ma con Tano: s’intendevano. Io ero indaffarato a seguire un’asta apparente fra i due mercanti maggiori di Beuys in Italia, alla fine della giornata l’opera era già venduta a un prezzo che ci rianimava, e che sarà stato un settantesimo del prezzo al quale, dopo un giro del mondo, la linotype finì al Guggenheim. Ho raccontato altrove della cerimonia serale, con la partecipazione metafisica di Federico Zeri, Renato Nicolini, Achille Bonito Oliva, Renato Guttuso – che si scusò di lasciare prima della fine, perché aveva “gli astronauti russi”: c’erano spesso astronauti russi per gli appuntamenti serali di Guttuso – e non so chi altri, me ne scuso. L’opera si intitolava “Lotta continua”, strada facendo prese il nome di “Terremoto”, non so per quale manina (Petra Richter l’ha studiata). Ho raccontato anche della cena con la famiglia Beuys, noi, io, Checco ed Enrico Deaglio, e Leonardo Sciascia, cui Beuys spiegava la democrazia diretta e la piantagione di milioni di alberi, e lui ascoltava più impenetrabile di un mandarino della Cina. 

Tanti anni dopo, morto così presto, nel 1990, Checco Zotti – l’inventore del paginone centrale per la cultura, con un secolo d’anticipo su Repubblica – avevo bisogno di dare a suo figlio la metà della lavagna di Beuys. Venivo da anni di assenza, dovetti andarla a cercare. Era dove mi aspettavo che fosse, in una casa di campagna, però posata, alla rovescia, su due cavalletti, e adibita a tavolo da ping pong. Come nel principe e il povero, quando il povero usava il sigillo reale per schiacciare le noci. Quando trovai un acquirente, gli eredi di Beuys non autenticarono la tavola, ritenendola un falso. Ebbi dalla mia parecchi testimoni, quello cui fui più grato era Arturo Schwartz. Soprattutto di quella tavola-lavagna non sarebbe mai apparso un presunto originale. C’era un altro piccolo originale: una lettera manoscritta lunga e calorosa che Beuys indirizzò al suo amico Andy Warhol per raccomandargli di accoglierci e starci a sentire: l’idea era di fare una gran cosa a Pompei l’anno prossimo, una replica dei Pink Floyd con la presenza di Beuys e Warhol, della Madonna e così via, che avrebbe fatto epoca e cassetta. Lucio Amelio mi chiese di prestargli la lettera, io ero uno così, facemmo una fotocopia e gliela prestai, non me la restituì. Lucio è morto, gli altri sono vivi. Anch’io, e aspetto. 

Berizzi, dunque. Riassumendo la questione Beuys per il Tagespiegel, Bernhard Schulz scriveva: “Sarebbe certo errato denunciare Beuys come un nazista, per irritanti che siano alcune delle sue relazioni”. Schulz disse qualcosa di più penetrante: che l’opera di Beuys faceva tutt’uno con la sua presenza, e che poi ne risulta come esanime. La mia linotype, nel suo sontuoso museo, come una natura morta! (Ma che cosa sarà allora di Marina Abramovich, senza di lei?)

Il Riegel dissacratore di Beuys ha detto: “Ha aperto le porte all’arte. L’ha messa sulla scena pubblica. L’ha resa mediatica. Come San Sebastiano, ha attratto sul suo corpo tutte le frecce. Ha de-accademizzato l’arte accademica. E’ stato il maestro di una intera generazione. Penso che la sua opera sia decisamente unica. Bisogna che la sua arte sia messa nel suo contesto... e questo è il problema”. Ha detto anche: “Devo a Beuys la mia incoercibile volontà di realizzare qualcosa...”.

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