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Racconto di una vita d'arte, musica e kebab in una Berlino svuotata dalla storia

Mariarosa Mancuso

C'era anche Vincenzo Latronico tra quelli che partivano per la capitale tedesca, dove la vita costava poco. Com'è cambiata in questi anni lo scrittore lo racconta in "La chiave di Berlino", il suo ultimo libro

"Un’estate andammo tutti in Portogallo, non ricordo più perché” – lo dice in un film Nanni Moretti, smemorato o solo distratto, forse già in modalità “con questa classe dirigente non vinceremo mai”. Ricordiamo benissimo invece le partenze di amici e conoscenti per Berlino, dove la vita costava poco, le feste del sabato sera duravano fino al lunedì, le gallerie d’arte crescevano e si moltiplicavano, l’est aveva lasciato in eredità grandi appartamenti sfitti. Se qualcuno invece di scrivere un romanzo voleva aprire un bar non era ostacolato dalla burocrazia, cure mediche e disoccupazione comprese.

 

Tra i partenti, nel 2009, c’era Vincenzo Latronico. 25 anni e già in curriculum un romanzo premiato e ben recensito: “Ginnastica e rivoluzione”. Una decisione presa senza troppo pensarci, mentre sull’altro fronte – un dottorato – c’era la possibilità di un perfezionamento a New York. Ma a Berlino c’erano i nomadi digitali, con i computer sui tavolini dei caffè. All’aperto, anche se lassù l’estate dura poco: nei mesi ingrati plaid e coperte di pile sono forniti dai proprietari dei locali. Vincenzo Latronico ha raccontato i trentenni e poco più in “Le perfezioni”. La vita dei “creativi” Tom e Anna, che ora fanno per soldi quel che avevano cominciato a fare per passione. Vivono in un bell’appartamento con piante e parquet, frequentano artisti e altri creativi, si amano ma quasi niente sesso (la passione fa disordine). Riportando ai primi decenni del nostro secolo “Le cose” di Georges Perec, uscito nel 1965. Letteratura, non autobiografia. Ma i votanti del premio Strega hanno fermato “Le perfezioni” prima della cinquina, avrebbe fatto sfigurare dolori & malattie.

“La chiave di Berlino” (Einaudi) inizia dal grande vuoto di Tempelhof, l’aeroporto dismesso nel 2008 e diventato – scrive Latronico – un parco “senza qualità”. Conserva ancora le piste d’atterraggio, serve mezz’ora per attraversarlo a piedi. E’ il primo impatto con la città “svuotata dalla storia”, dove si poteva sopravvivere con pochi soldi e quasi senza parlare una parola di tedesco, bastava l’inglese.

 

Latronico intanto ha pubblicato il secondo romanzo, “La cospirazione delle colombe”. Il terzo stenta ad arrivare. Per mantenersi traduce e scrive di arte, recensioni e più redditizi cataloghi (stiamo comunque parlando di un migliaio di euro al mese, sufficienti allora per stanza in subaffitto e kebab). Quanto alle opere, andavano dai maglioni della propria adolescenza disfatti e poi riorganizzati per colore (così funziona la memoria) alle installazioni nell’appartamento dell’artista (che in precedenza aveva chiesto ai vicini del piano di sopra di lasciare l’acqua aperta, così da arricchire la performance con un’infiltrazione). Berlino stava cambiando.

Dopo un paio di flashback sul passato, ai tempi di Christopher Isherwood, visitiamo il Times Bar, un locale di Neukölln. Due stanze con le pareti scrostate, solo birra nel frigo, piastrelle sul bancone, concerti, dj set e droghe. Pareva un resto della vecchia Berlino degli expat, c’era il locale noto come “ambasciata italiana”. Sbagliato, era l’invenzione di due artisti americani usciti dalla scuola d’arte: Calla Henkel e Max Pitegoff, ora famosi. L’arte portò i soldi. Per un appartamento la fila degli aspiranti girava attorno all’isolato. E non era una performance.

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