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il libro

"Amianto", il mondo operaio senza pretese di superiorità morale

Edoardo Rialti

Il libro di Alberto Prunetti è un crudo memoriale che fa a pezzi tanta letteratura snob e impegnata. Una sorta di “Vita è bella” al contrario, con Piombino e un bambino della classe operaia il cui padre è l’eroe che lavora a un’astronave malefica

Terribile e bellissimo. Furono questi gli aggettivi di Valerio Evangelisti nel recensire Amianto di Alberto Prunetti alla sua prima uscita anni fa – adesso il romanzo torna in libreria per Feltrinelli. L’epica familiare di una classe sociale, la vita e la morte di un padre operaio ucciso dall’amianto, le battaglie estenuati che seguono a essa per la verità e la memoria autentica. Ogni volta che lo rileggo il mio pensiero è – complice un’intuizione del regista Mounir Derbal – che se ne potrebbe ricavare un grande film, ben lontano dalle cartoline localiste à la Ovosodo, una sorta semmai di “Vita è bella” al contrario, da girare come un film quasi di fantascienza, con Piombino e le sue industrie viste con le lenti di Mad Max o Blade Runner, e un bambino della classe operaia il cui padre è l’eroe che lavora a un’astronave malefica, che alla fine se lo porterà via.

Piombino può essere una sorta di miraggio, scorta sempre a destra della propria spiaggia delle vacanze, il golfo dolce di Follonica, i contorni ora netti ora sfocati dell’Elba lì davanti – che in latino si chiamava Ilva – come una immane scogliera, le due torri delle ciminiere mentre splende sempre il sole, il sogno di mesi in calzoni corti. Quegli stessi spazi erano però la cornice per un quadro diverso, e nella stessa farmacia dove i turisti estivi chiedono le creme per le scottature o le pomate per le meduse può irrompere un giovane che cerchi disperatamente degli antidolorifici per il genitore in ospedale. Prunetti racconta infanzia, adolescenza e giovinezza mentre suo padre da gigante titanico progressivamente avvizzisce, e la sua forza – quella di un mondo intero – si sfalda, tra piattate di pasta la domenica, spaghetti western, perculate, battaglie sindacali, fionde coi loppi etruschi, il mito del calcio che non lascia scelta, e chi se ne frega se il volontario della polisportiva viene accusato di essere un buco, addirittura un pedofilo, “ormai sono lontani i giorni in cui si andava a giocare cantando ‘Bandiera rossa’ dentro al furgoncino, non è più il tempo in cui una persona adulta può parlare di sesso con degli adolescenti senza che scattino denunce. E allora, ripensando a tutte queste cose, i miei tre gol nei campetti davanti alle cave e sopra le miniere li dedico proprio a Guido, e vaffanculo”.

La scoperta della lettura e della scrittura, tra don Milani e Biancardi, che quel mondo stesso ti permette di raccontarlo e al tempo stesso ti isola, rende altro, seppure di poco, apparentemente schiudendoti l’universo dei compagni più agiati per gettarti solo in una forma più subdola, ruffiana di precariato. In tutto questo, gocciolano parole crudeli come sortilegi-cassaintegrazione, tumore – mentre l’eroe irradia comunque una postura che supera sempre la somma dei singoli aneddoti. La vicenda privata è la soglia per addentrarsi in un paesaggio collettivo, di forme politiche ed espressive diverse. Oggi Prunetti dirige una collana di letteratura working class per Alegre, che tra i suoi meriti annovera la traduzione italiana di Chav di D. Hunter, autentica mazzata nei denti, e combatte anche, col peso della sua esperienza e al tempo stesso la finezza semantica del traduttore e del filologo, contro gli addomesticamenti e gli sfruttamenti camuffati da denuncia facile, dal palco di un compiaciuto progressismo. Feroci e spassose sono le pagine da saggista sui refrain linguistici nel premiato Acciaio di Avallone, ambientato negli stessi luoghi di Amianto, che però al netto delle lodevoli intenzioni programmatiche di denuncia di maschilismo e di patriarcato, tradisce altre lenti deformate, porta avanti stereotipi comunque classisti. Avallone scrive del “perenne desiderio di scopare, là dentro.

La reazione del corpo umano nel corpo titanico dell’industria” e Prunetti non se la beve: “Questa sessualizzazione grottesca e caricaturale dei corpi degli oppressi è stata realizzata in passato dall’ideologia razzista sui corpi delle persone nere e serve a degradarle, non a esaltarle… Io ho contato (e posso sbagliarmi per difetto) quarantuno ricorrenze nel romanzo per il verbo guardare, solo undici per il verbo lavorare. Ecco, questa modalità di osservazione “dal buco della serratura”, o più appropriatamente “dalla finestra”, è quella che l’autrice istituisce nel corso della lettura, collocando il lettore modello dentro questo sguardo: una contemplazione eccitata da un luogo confortevole sulla vita dei poveri. Fittiziamente attorializzata da personaggi proletari, ma a uso e consumo di un lettore che probabilmente proletario non è”. Solo una compromissione autentica con l’esperienza permette di esprimere qualcosa che abbia il sentore inesorabile della verità, e che in tale contaminazione, impatto consenta davvero al lettore di andare dove da solo non sarebbe andato, vedere l’invisibile che spesso gli è accanto: “Ho usato il mastice della fantasia e stretto senza cattiveria ma con decisione l’ordine del discorso. Non gocciola: ci ho messo un cartone sotto e le lacrime si sono asciugate”.

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