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La storia

Perché in Italia non si legge Furet, storico contro il “catechismo rivoluzionario”

Giovanni Belardelli

Nel nostro paese il nome dello storico d’oltralpe è stato rapidamente dimenticato. Questo si deve alla concezione etico-giudiziaria della politica da parte della sinistra postcomunista

Segnalando ai lettori il ritorno in libreria, in unico volume, dei tre romanzi storici che Hilary Mantel dedicò alla Rivoluzione francese, il Venerdì di Repubblica ne ha approfittato per liquidare in poche battute l’opera di François Furet. Lo storico francese viene infatti definito, in un articolo di Massimo Raffaeli, come portatore “dell’idea reazionaria (…), da tempo insediata nel senso comune, secondo cui la Rivoluzione francese, e anzi ogni rivoluzione, cova fatalmente il germe totalitario”. Chi non avesse mai sentito nominare prima Furet potrebbe pensare che ci si stia riferendo a uno studioso controrivoluzionario, invece che a uno dei maggiori storici degli ultimi decenni del Novecento. Dunque un giudizio come quello appena citato potrebbe essere semplicemente ignorato, come una delle tante supponenti sciocchezze che a volte capita di leggere. E tuttavia quelle parole sono anche la spia della diffidenza che ha finito per circondare in Italia le opere di Furet, da tempo non più ristampate.

L'unico suo libro ancora in commercio, probabilmente per il carattere di manuale universitario, è la storia della Rivoluzione francese scritta insieme a Denis Richet, pubblicata da Laterza, mentre è esaurito un testo fondamentale come Penser la Révolution française, al quale l’editore – sempre Laterza – diede un titolo del tutto fuorviante: Critica della Rivoluzione francese. La “critica”, in questi due libri di Furet c’era, eccome; ma era rivolta non alla Rivoluzione bensì al “catechismo rivoluzionario”, come lui stesso definiva l’interpretazione marxista-giacobina che considerava la rivoluzione “borghese” dell’89 come primo tempo, stadio necessario, della successiva rivoluzione “socialista” del 1917. In quest’ottica antideterministica Furet demoliva anche l’interpretazione della fase giacobina della rivoluzione, dominata dal Comitato di salute pubblica, come tappa obbligata, mettendo a fuoco in pagine folgoranti le ragioni vere, tutte incentrate sulla dinamica politica rivoluzionaria, del dérapage, dello slittamento della Rivoluzione verso il Terrore. 

Ma se nel nostro paese il nome dello storico d’oltralpe è stato rapidamente dimenticato, questo ha soprattutto a che fare con Il passato di un’illusione, il gran libro che a pochi anni dal crollo del Muro Furet dedicò all’idea comunista nel XX secolo. Si trattava di un’opera fondamentale che metteva in discussione letture della storia del Novecento da tempo consolidate fino a diventare luoghi comuni, a cominciare dal doppio standard di giudizio sulle dittature del Novecento: un doppio standard secondo il quale il regime sovietico, a differenza di quello fascista e di quello nazista, andava anzitutto considerato per la sua grande promessa di liberazione sociale e umana, criticandolo semmai per non essere stato in grado di realizzarla effettivamente. 
 

Il libro metteva alla berlina quello che, per analogia con il Furet storico della Rivoluzione francese, potremmo chiamare il “catechismo antifascista”, la lettura della storia del Novecento che in paesi come l’Italia e la Francia era stata utilizzata dalla sinistra comunista per attribuirsi una legittimità politica democratica. Ad esempio, Furet sottolineava come fascismo e comunismo non dovessero essere considerati alla stregua di due ideologie e due movimenti in totale opposizione: entrambi, infatti, davano risposte diverse alle stesse domande volte a combattere l’individualismo borghese e ad “assorbire l’uomo privato nell’uomo pubblico”. Oppure notava come fosse stata totalmente cancellata, nella memoria europea post 1945, la responsabilità che l’Urss aveva avuto nel favorire lo scoppio del conflitto mondiale, poiché Stalin, prima di diventare acerrimo nemico di Hitler, ne era stato dal settembre 1939 al giugno 1941 il principale alleato.

Ma chiediamoci perché questo libro sia diventato introvabile, dopo l’iniziale successo: la prima edizione Mondadori era del maggio 1995 e già in agosto si pubblicava una terza edizione; l’anno dopo il libro era inserito nella collana degli Oscar dove però non viene più ristampato da vent’anni ed è dunque esauritissimo. Credo che dietro l’iniziale, ottima diffusione del libro seguita da un pressoché totale oblio ci sia una ragione importante, relativa ai modi in cui la sinistra postcomunista cercò di fare i conti con la propria tradizione. Di fronte a quello che, caduto il Muro, era un panorama di macerie non pochi esponenti dell’ex Pci cominciarono a maturare una valutazione critica del comunismo che andava ben oltre le vecchie cautele berlingueriane. Era un percorso che stava portando al riconoscimento dei caratteri totalitari dei regimi dell’est e alla piena rottura con la propria storia (usciva allora, nel 1996, un libretto di Miriam Mafai che oggi sarebbe inconcepibile: Dimenticare Berlinguer). 

Ma accadde qualcosa e la riflessione della sinistra italiana sul proprio passato si arrestò. Accadde che di fronte alla comparsa di Berlusconi, la sinistra postcomunista abbracciò una concezione della politica in chiave sempre più etico-giudiziaria (non estranea, peraltro, all’austero moralismo berlingueriano). Su questa linea, più che proseguire nel riesame della propria storia preferì sposarne un’altra nuova di zecca, quella di un azionismo, o meglio di uno pseudoazionismo, moraleggiante. Nasceva allora il cosiddetto “complesso dei migliori” che non è stato estraneo alle limitate fortune elettorali di chi proveniva dalla tradizione politica del Pci. In ogni caso, in questo nuovo percorso i libri di Furet diventavano del tutto inutili.